Epatite C, tutti guariti con le nuove cure per il genotipo 1b

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Buone notizie per i pazienti con infezione cronica da virus dell’epatite C (HCV) di genotipo 1b e cirrosi epatica. Il cento per cento dei soggetti trattati con Viekurax ed Exviera, senza ribavirina, ha ottenuto la risposta virologica sostenuta a 12 settimane. Significa che il virus viene spazzato via. Questi i risultati della sperimentazione Turquoise-III, annunciati da AbbVie in occasione del congresso annuale International Symposium on Viral Hepatitis and Liver Diseases a Berlino.

Sono circa 160 milioni in tutto il mondo le persone con HCV. Il genotipo 1 è il più comune, osservato nel 60 per cento dei casi a livello mondiale, mentre in Europa prevale il genotipo 1b (47 per cento dei soggetti). Nel tempo, con l’evoluzione della malattia, circa il 10-20 per cento dei pazienti con infezione cronica va incontro a complicanze quali la cirrosi. I risultati della sperimentazione Turquoise dimostrano che i pazienti con HCV di genotipo 1b e cirrosi compensata possono ottenere tassi elevati di risposta dopo 12 settimane di trattamento con un regime privo di interferone e ribavirina, ha detto Jordan J. Feld, direttore della ricerca del Toronto Center for Liver Disease, Canada.

Avete dei dubbi? Un numero verde è in grado di dare risposte qualificate. Che cos’è l’epatite C, come si trasmette e cosa accade se si viene infettati? Sono domande cui il 69% degli italiani (dai 18 anni in su) non saprebbe rispondere in modo corretto o completo. La campagna di informazione Una Malattia con la C promossa da AbbVie, con il patrocinio dell’Associazione Italiana per lo Studio del Fegato (AISF), della Società Italiana di Malattie Infettive e Tropicali (SIMIT) e di EpaC Associazione Onlus, si propone di dare risposta a molti interrogativi per promuovere la conoscenza dell’epatite C e favorire la prevenzione di questa malattia silenziosa, i cui sintomi possono richiedere anche 30 anni per manifestarsi, e le cui conseguenze non vanno sottovalutate.

Fino alla fine del mese di giugno, dal lunedì al venerdì dalle 16 alle 20, un pool di medici infettivologi e gastroenterologi, specializzati nella cura delle malattie epatiche, afferenti alle società scientifiche AISF e SIMIT, e alcuni rappresentati di EpaC, risponderanno al Numero Verde gratuito 800 129 030 per ascoltare, informare e consigliare su tutto ciò che riguarda l’epatite C e la sua prevenzione.

FONTE: quotidiano.net

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Hiv: Italia all’avanguardia nella cura dei pazienti, premiati i giovani ricercatori

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Notizia da Poloinformativo HIV AIDS

Sono 11 i progetti finanziati dall’UE guidati da leadership italiana. Migliorano le cure nonostante manchi ancora un vaccino per l’Hiv. Rimane il problema del sommerso. In arrivo nuovi programmi per reperire fondi. È quanto emerso alla VII Conferenza italiana su Aids e retrovirus (Icar) in corso a Riccione.

Individuare percorsi di diagnosi e cura dell’infezione da Hiv che si basino sulle interazioni tra ricerca di base, ricerca diagnostico-clinica ed esigenze delle persone sieropositive.
È questo l’obiettivo della VII Conferenza italiana su Aids e retrovirus (Icar) in corso a Riccione che ha visto protagonisti i giovani ricercatori italiani e stranieri.E Letizia Marinaro dell’Università di Torino si è aggiudicata il Premio ICAR-CROI Awards 2015 per i giovani ricercatori italiani.

Il primato italiano. La ricerca italiana è all’altezza delle altre nazioni europee, ha ricordato Adriano Lazzarin, della Divisione di malattie infettive Irccs San Raffaele e Presidente Icar. E il principio alla base di questa affermazione è molto semplice: “i farmaci antiretrovirali sono disponibili per tutti. L’Italia è stata efficiente anche nell’ottenerli nella fase di sviluppo; si dovrebbe rendere più rapida la registrazione per averli a disposizione”.

Un vantaggio del sistema italiano è che ha fatto un piano di intervento ministeriale con una legge centrata sui professionisti di settore (centri e ambulatori di malattia infettiva, distribuzione farmaci negli ospedali) (L. 135/90). La retention in care è assolutamente più efficace in Italia che in tutti gli altri Paesi occidentali: quello italiano è un modello di intervento da esempio per gran parte del resto del mondo, che porta ad una viremia negativa dell’80% dei pazienti seguiti. Negli Usa, ad esempio, i molteplici passaggi necessari dal test alla cura fino al medico di medicina generale porta a risultati molto più modesti (50%).

Risorse economiche. Un passo in avanti ci sarà sul fronte del sostegno economico. Come annunciato da Stefano Vella, Direttore del Dipartimento del Farmaco dell’Iss “un nuovo modello di cooperazione tra gli stati membri con un progetto denominato EDCTP Plan permetterà a breve un nuovo slancio per il reperimento dei fondi, a garanzia della salute globale e della ricerca”.

Ci sono le cure, non un vaccino. Ad oggi, un vaccino per l’Hiv non esiste. È stata una chimera inseguita dai primi ricercatori più negli anni ’80, spiega Lazzarin “il problema principale è che un vaccino facile da costruire si ricava da un anticorpo che inattiva il virus e lo blocca; per l’Hivciò non può essere realizzabile, poiché gli anticorpi neutralizzanti, laddove esistano, non sono in grado di bloccare l’infezione una volta che è entrata nella cellule. Quindi il problema di non acquisire l’infezione si può risolvere cercando di far produrre anticorpi contro il virus, ma ad oggi nessun anticorpo da solo sembra in grado di neutralizzare l’infezione”.

Si possono dunque solamente potenziare le difese immunitarie contro il virus. Con la cosiddetta vaccinazione terapeutica e non preventiva che viene aperta una finestra sul rafforzamento delle risposte immunitarie attraverso le cellule che generano anticorpi: l’organismo sottoposto alla vaccinazione riuscirebbe così a potenziare la capacità di produrre anticorpi attraverso lo stimoli di cellule dendritiche. Le cellule dendritiche sono le prime colpite dall’infezione, che poi passano ai linfociti. Il risultato delle dimostrazioni effettuate finora non ha però mostrato il vaccino come un obiettivo facilmente perseguibile. In merito a quegli studi internazionali che prefigurano risultati rivoluzionari dunque si può essere ottimisti, ma con molta cautela.

Test e prevenzione. Resta il problema del “sommerso”, ovvero di coloro che ignorano di essere infetti. Oggi, il comportamento maggiormente a rischio per il sommerso sono i rapporti omosessuali tra giovani maschi; discorso a parte va fatto per gli immigrati, il cui discorso è complesso in quanto rappresentano il sommerso per eccellenza, mentre le diverse caratteristiche etniche e la provenienza geografica generano notevoli differenze per il rischio di infezione.
“Bisogna stimolare le persone, oltreché con la campagna di informazione/prevenzione, soprattutto all’esecuzione dei test – ha aggiunto Lazzarin – è necessario rivolgersi a singoli, in particolare ai giovani”. Spesso i metodi più semplici vengono ignorati: per chi ha raggiunto una certa età, il test dell’HIV può essere effettuato assieme a quello delle malattie più comuni. I più giovani, che sono anche i meno motivati, devono essere sollecitati e avere a disposizione strumenti semplici, come il moderno test salivale, in uso anche per l’epatite C.

 

FONTE: quotidianosanità.it

 

Nuovo regime terapeutico per HCV: Sofosbuvir, GS-5816 E GS-9857

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Notizia da Poloinformativo HIV AIDS

È in sperimentazione una nuova formula terapeutica per l’epatite C cronica basata sull’integrazione fra Sovaldi (sofosbuvir 400 mg/SOF), GS-5816 (l’inibitore sperimentale del complesso di replicazione NS5A) e GS-9857 (un inibitore sperimentale della proteasi NS3/4A).

Negli studi pre-clinici, GS-9857 ha dimostrato un’attività antivirale analogamente potente contro i repliconi HCV di tutti i genotipi testati (1-6), così come un profilo di resistenza migliore rispetto ad altri inibitori della proteasi dell’HCV. In uno studio condotto su volontari sani, GS-9857 ha dimostrato di possedere un profilo farmacocinetico favorevole. Anche i dati di uno studio in monoterapia di tre giorni hanno dimostrato che GS-9857 è stato ben tollerato e ha indotto riduzioni mediane di HCV RNA pari a oltre 3 log10 IU/ml nei pazienti con HCV di genotipo 1, 2, 3 e 4, alla dose di 100 mg.

Uno studio di Fase II di Fase II della terapia a tripla combinazione, composta da una combinazione a dose fissa di SOF/GS-5816 più GS-9857, condotto tra pazienti con genotipo 1, ha dimostrato percentuali di risposta virologica sostenuta (SVR12) dopo sei settimane di trattamento pari al 93% (n = 14/15) tra i pazienti non cirrotici naïve al trattamento, 87% (n = 13/15) tra i pazienti cirrotici naïve al trattamento e 67% (n = 20/30) tra coloro che avevano fallito la terapia con due o più agenti antivirali ad azione diretta (DAA). Il regime di quattro settimane ha determinato una percentuale subottimale di SVR12 pari al 27% (n = 4/15).

“Questi dati supportano il continuo sviluppo di GS-9857 e il potenziale per una terapia a tripla combinazione, interamente orale, contenente Sovaldi, GS-5816 e GS-9857, per cercare di ridurre ulteriormente la durata del trattamento nei pazienti affetti da epatite C”, ha dichiarato Norbert Bischofberger, PhD, Executive Vice President of Research and Development e Chief Scientific Officer, Gilead Sciences. “Le percentuali di SVR12 a sei settimane e gli altri dati presentati al Congresso EASL sono incoraggianti, e dimostrano il potenziale pan-genotipico di questo regime; di recente abbiamo anche avviato studi supplementari di Fase II, al fine di valutare ulteriormente la durata appropriata del trattamento con questo regime in tutti i pazienti, a prescindere dal genotipo, inclusi quelli che hanno fallito una precedente terapia con antivirali ad azione diretta e quelli con cirrosi”.

La combinazione SOF/GS-5816 più GS-9857 è stata generalmente ben tollerata. Non sono insorti eventi avversi di grado 3 o 4, né eventi avversi gravi. Gli eventi avversi più frequenti sono stati nausea (25%), mal di testa (24%) e affaticamento (16%). In quattro pazienti (5%) si sono verificati livelli elevati – transitori e asintomatici – di lipasi (di grado 3 o 4).
GS-5816 e GS-9857 sono prodotti sperimentali, la sicurezza e l’efficacia dei quali non sono state ancora stabilite.

FONTE: italiasalute.it

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«Io, sieropositiva, dico ai giovani proteggetevi»

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Una storia d’amore tra due città. Poi l’inizio di una convivenza, e il rapporto che si deteriora. Fin quando, prima che lei lo lasci, lui la violenta: «Sapeva che era malato, lo ha fatto apposta». Ora Veronica ha un messaggio per tutti.

«Troppi giovani sottovalutano il problema, hanno rapporti non protetti, sono poco consapevoli dei rischi che corrono. Non sanno che basta un attimo e la vita ti cambia per sempre».
Chi parla è Veronica, 49 anni, di Milano, che convive con l’Hiv da quando ne aveva 27. «Forse i ragazzi non si proteggono perché di Aids non se ne parla quasi più, a parte quando ci sono le giornate dedicate o accade qualche evento eccezionale. Sono poco educati alla prevenzione, che è l’unica cosa che ti salva. Invece, bisognerebbe parlarne, e tanto, perché il virus esiste ancora, esiste davvero e continua a passare da una persona all’altra, silenzioso».

In Italia ogni due ore qualcuno contrae il virus dell’Hiv. In totale si è calcolato che ogni anno si infettano circa 4 mila persone, soprattutto giovanissimi che hanno rapporti non protetti (l’80 per cento) e che non sanno che il virus, una volta contratto, non può più essere eliminato (il 25 per cento).
Sono dati che fanno paura. Roba che forse neanche negli anni ’80, quando di Aids si cominciava appena a parlarne e le campagne informative erano molto più diffuse di adesso, soprattutto nelle scuole. «Ricordo che con una amica decidemmo di fare il test proprio dopo aver assistito all’ennesimo dibattito.Il risultato fu negativo. Decidemmo che da quel momento non avremmo più avuto rapporti non protetti. Non potevo certo immaginare quello che mi sarebbe accaduto».

L’incontro con un ragazzo di passaggio a Milano. L’inizio di una storia d’amore. La decisione di lui di trasferirsi dalla sua città in Lombardia e l’inizio di una convivenza. «Ero innamorata, ma pretendevo lo stesso che usassimo il preservativo. Gli chiesi di fare anche lui il test, così ci saremmo sentiti entrambi più tranquilli. Ma lui continuava a rimandare. Poi una sera, eravamo ormai alla fine del nostro rapporto, mi usò violenza. E ovviamente lo fece senza preservativo. È bastata quell’unica volta». La voce di Veronica si spezza, il trauma è ancora forte, ed è doloroso raccontare la propria esperienza. Se ha deciso di farlo è per sensibilizzare chi legge, e soprattutto i più giovani.

Il 3, 4 e 5 aprile nelle piazze, nei supermercati e negli ospedali di tutta Italia saranno allestiti 2200 banchetti dove i volontari di AnlAids, l’associazione che combatte contro questa terribile malattia, sensibilizzando e promuovendo anche la ricerca, offriranno a chi passa un bonsai, la pianta ormai diventata simbolo della lotta all’Aids. «Curarli è un modo per ricordarsi che l’impegno per fermare questo virus deve essere quotidiano, come quotidiane sono le cure di cui hanno bisogno le persone che vivono con l’Hiv», dicono dall’associazione.

E Veronica aggiunge: «Quel “vivono con l’Hiv” è importante, va sottolineato. Io ci convivo da 22 anni con questo virus, e come me siamo in tanti. Oggi, grazie ai farmaci, si può scongiurare a lungo il passaggio alla fase della malattia conclamata, si può condurre una vita quasi normale. Io lavoro, vado a teatro, ho dei fidanzati».

Certo, se glielo avessero detto quando scoprì che aveva contratto il virus non ci avrebbe creduto. «Fu uno choc. Un giorno quel ragazzo, che ormai era diventato un ex, mi chiamò. Mi disse che si trovava in ospedale. Scoprii che aveva l’Aids, e che lo aveva sempre saputo. Che quando io gli chiedevo di fare il test, lui rimandava perché conosceva già il risultato. Quando mi usò violenza, sapeva che avrebbe potuto infettarmi».

«Feci anche io il test e il risultato non lasciò adito a dubbi. Dopo, ero terrorizzata. Non sapevo come comportarmi, come dirlo ai miei genitori. Deciso di non dirglielo, temevo che mi giudicassero. All’epoca, negli anni ’80, l’Aids veniva ancora associata solo ai gay e al mondo della prostituzione. Avevo paura del loro giudizio. Mi dissi: “Glielo farò sapere più avanti”. Invece non l’ho mai fatto, sono passati tanti anni e ancora la mia famiglia non sa niente».

Come, del resto, non lo sanno tanti dei suoi amici. «La gente ha ancora troppa paura. Lì per lì fanno finta di niente, ma poi ti isolano. Glielo leggi in faccia che hanno paura di toccarti, come se tu potessi contagiarli solo sfiorandoli. Allora molti come me non dicono niente. Le strade d’Italia sono piene di persone che hanno l’Hiv e che non lo fanno sapere».

Raramente Veronica lo dice ai suoi fidanzati. «L’ho fatto solo due volte. I miei partner mi hanno capita. Con il secondo la storia è durata più a lungo, ma si vedeva che aveva paura a toccarmi. Dopo aver scoperto la verità, non era più spontaneo come prima, ed è finita».

«Per anni sono stata in terapia, dovevo affrontare i miei fantasmi. All’inizio ero convinta che sarei morta presto, e non è facile vivere con questa consapevolezza, e accettarla. In seguito, realizzai che non avrei mai potuto avere figli. È stato il momento più difficile».

Anche se con le cure moderne le cose sono cambiate. «Qualche anno fa un medico mi ha detto: “Signora, lei lo sa che se vuole può fare un bambino?”. Mi ha spiegato che con le nuove terapie molte mamme sieropositive danno alla luce bambini sani. Sono scoppiata a piangere, poi però non me la sono sentita di tentare». Scoppia a piangere: «Non è facile rinunciare all’idea di avere un figlio. Non è facile vivere nel silenzio. È come essere condannata senza colpa. Per questo è importante che se ne parli. Non posso accettare l’idea di tutti quei ragazzi giovanissimi lì fuori, che fanno sesso senza protezione, inconsapevoli dei rischi ai quali vanno incontro. Devono sapere quello che rischiano, devono pensarci e proteggersi, prima che sia troppo tardi».

FONTE: vanityfair.it

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Il punto su costi e distribuzione dei nuovi farmaci anti HCV

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I nuovi farmaci per sconfiggere il virus dell’epatite C saranno made in Latina. E’ la scelta di due multinazionali per la produzione di queste molecole a livello globale. E l’Italia è anche il Paese dove il numero di pazienti con il fegato minato dal virus Hcv è percentualmente da capogiro. L’obiettivo del servizio sanitario è quello di eliminare il virus dal nostro Paese.

Medicine sotto stretto controllo, la gestione è centrale
I farmaci ci sono, ne arriveranno anche altri, ma hanno il problema dei costi. Si è scelta così la via della selezione dei pazienti in base alla gravità per arrivare, nel tempo, a zero epatite C in Italia. Nel tempo. L’Agenzia italiana del farmaco (Aifa) ha pianificato una strategia molto moderna: un algoritmo di selezione dei pazienti. Che affiancato al recente registro nazionale dovrebbe consentire di vincere la sfida. Anche gli accordi sui costi (in alcuni casi secretati per richiesta dei produttori) hanno premiato la nostra agenzia, a tal punto da essere «invidiata» da altri Stati europei che avevano già dato il via libera al mercato di questi preziosi farmaci.

Dal 24 febbraio (Gazzetta ufficiale) il simeprevir è disponibile in Italia ed è partita la cura anti-virus dell’epatite C senza interferone e ribavirina. Non è in farmacia, ma solo in ospedale. E solo per i malati che sono monitorati (vedi algoritmo Aifa) nell’assunzione del medicinale. Una cura gratuita ma tenuta sotto stretta sorveglianza economica. Tutto ciò dopo l’annuncio della multinazionale Janssen di aver individuato nello stabilimento di Latina il produttore del farmaco per tutto il mondo e dopo il successo della lunga trattativa sul prezzo del simeprevir in Italia, finalmente è partita la prima vera possibilità di eradicare l’epatite C in un Paese.

Farmaci «rivoluzionari»
L’Aifa, l’11 marzo, ha anche raggiunto l’accordo per la rimborsabilità della combinazione dasabuvir e ritonavir per pazienti affetti da epatite cronica C (genotipo 1 e 4). E anche in questo caso la multinazionale produttrice (AbbVie) ha scelto la zona di Latina, il loro stabilimento è a Campoverde di Aprilia, sia per il mercato italiano sia estero. Gli infettati dal virus dell’epatite C (Hcv) in Italia costano attualmente al Servizio sanitario nazionale circa un miliardo di euro l’anno.

Siccome si tratta di una malattia mortale (si «cura» con trapianto oppure non si cura), si può ben dire che far guarire chi ne è affetto con una o due pillole al giorno è una scoperta rivoluzionaria. A cui si è arrivati con fatica, dopo anni e anni di ricerca e investimenti milionari. Così, quando questi farmaci tagliano il traguardo il costo trattato lievita. E non solo perché si deve recuperare l’investimento, ma anche per fare business. Peraltro, in questo caso, il prezzo elevato potrebbe essere cancellato nel giro di sei settimane di nuova cura (2 mesi al massimo): la promessa è, infatti, la guarigione al termine del periodo previsto nella quasi totalità dei casi. Il costo tiene conto di tutto ciò.

Nonostante la crisi l’Italia si impegna a eradicare l’epatite C
Il sofosbuvir, il primo approvato, tocca i circa 80 mila euro nel mondo (i 50 mila in Italia, si dice). Una malattia incurabile che diventa guaribile in poco tempo. Vera rivoluzione, ma solo per ricchi laddove non esiste un servizio sanitario nazionale. I poveri possono anche morire. L’Italia, che ha un servizio sanitario nazionale, sta cercando la via per preservare la sua filosofia di sanità universale e arrivare a curare tutti, cominciando dai più gravi per restare nel budget risicato, ma con l’obiettivo di eradicare il virus nell’arco di qualche anno. Al massimo entro il 2030, trasferendo la voce epatite C ai libri di Storia della medicina così come già accaduto in passato con la peste o con il vaiolo.

I costi non sembrano sostenibili nell’Italia odierna e i conti stentano a tornare, ma la determinazione del ministro della Salute Beatrice Lorenzin e del direttore generale dell’Agenzia italiana del farmaco (Aifa) Luca Pani hanno posto le basi di una roadmap anti epatite C per raggiungere l’obiettivo del tutti curati gratuitamente. Partendo dai malati gravi, per arrivare a quel milione (forse un milione e mezzo) di infettati ipotizzato (o stimato), anche perché a volte senza diagnosi.

Il costo che si assorbirà nel medio-lungo periodo
Per dare idea di che cosa si parla basta un piccolo gioco di calcolo: un milione di epatitici C per 50-70 mila euro (occorrono due di questi farmaci per guarire 9 malati e mezzo su dieci) porta a un totale di 50-70 miliardi di euro. Metà dell’intero fondo previsto per il Ssn nel 2015. Impossibile fare tutto subito, ma piano piano si può arrivare all’obiettivo: dai malati candidati al trapianto, da quelli che hanno più di metà fegato già non più funzionante (per la cicatrice, cirrosi, che via via uccide l’intero organo e quindi l’intero organismo) o prima che l’infezione continua non si trasformi in tumore (epatocarcinoma).

Nel medio-lungo termine, dunque, tale costo si rivelerà un risparmio per il servizio sanitario: in vite umane, in disabilità croniche, in spese dirette e indirette. Gli esperti in economia sanitaria sottolineano l’importanza di avere tra le mani nuove cure costosissime ma definitive. «I pazienti ufficiali con epatite C attualmente trattati o in osservazione dal servizio sanitario sono circa 370 mila, a cui vanno aggiunti 18-25 mila individui detenuti nelle carceri italiane», dice Massimo Colombo, università di Milano, epatologo di fama internazionale. Finalmente si conoscono i numeri, grazie a un registro nazionale divenuto d’obbligo di fronte al costo delle nuove cure. Occorre pianificare in base a dati precisi. O quasi. «Partendo dai dati, siamo andati a valutare qual è l’onere reale a carico dello Stato – aggiunge Colombo -. Resta il fatto che noi medici dovremmo spiegare ai pazienti perché c’è la cura e non possono assumerla subito, che dovranno aspettare e aggravarsi per venire guariti».

L’analisi economica
L’analisi economica spetta a Francesco Mennini, economista sanitario dell’università Tor Vergata di Roma: «Abbiamo distinto i costi diretti da quelli indiretti. I primi, quelli cioè collegati all’assistenza sanitaria, al 2013 sono oltre 400 milioni di euro. I secondi, gli indiretti, che riguardano la perdita di produttività dovuta alle giornate di assenza dal lavoro, ammontano a circa 640 milioni euro. Di conseguenza, l’onere complessivo di trattamento e monitoraggio della malattia si attesta intorno al miliardo di euro all’anno.

Considerando poi una suddivisione per stadio di malattia, emerge che in termini di costi diretti la cirrosi è al primo posto, con oltre 200 milioni di euro sostenuti dal servizio sanitario, seguita dall’infezione da Hcv cronica con 125-126 milioni di euro, e dai trapianti di fegato che pesano per circa 40-45 milioni di euro. Infine, i 26-27 milioni di euro legati al carcinoma epatico». Quindi un peso economico molto importante per il trattamento e il monitoraggio di questi pazienti. La soluzione? Far guarire questi malati. E oggi c’è il modo. Con un risparmio virtuoso che, alla lunga, donerà ossigeno all’asfittico servizio sanitario italiano. Entro quanto tempo? Prosegue Mennini: «Considerando un modello che ci ha permesso di prevedere che cosa potrebbe accadere dal 2015 fino al 2030 con l’introduzione dei nuovi farmaci, emerge che ci sarebbe una fortissima riduzione a partire dai primi 20 mesi nella prevalenza dei casi. C’è, poi, una consistente riduzione di morti da epatocarcinoma, del numero dei trapianti e, a partire dal secondo anno di inizio di trattamento, anche una riduzione dei costi diretti sanitari».

Quali sono in nuovi farmaci
I nuovi farmaci: quattro sono quelli già approvati e altri tre sono in arrivo, tutti garantiscono la guarigione nella quasi totalità dei casi. Dopo il sofosbuvir, il primo di nuova generazione arrivato in Italia, ecco ora il simeprevir. I due abbinati guariscono senza bisogno di interferone e di ribavirina. Effetti collaterali pari a zero, soprattutto rispetto a interferone e ribavirina. Un fondo da un miliardo di euro è già stato previsto ed il ministero della Salute ha inviato i carabinieri del Nas nelle Regioni per verificare lo stato di erogazione dei farmaci a fronte dei ritardi denunciati. Le associazioni dei malati annunciano che le Regioni che non garantiranno i nuovi medicinali verranno segnalate all’autorità giudiziaria.

FONTE: corriere.it

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L’avanzata del virus osservata in tempo reale

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Una nuova tecnica di tracciaggio delle cellule infette permette di studiare la replicazione del virus all’interno dei tessuti, con un’accuratezza mai raggiunta prima. Lo studio effettuato sui macachi potrebbe avere importanti conseguenze nel trattamento di pazienti sieropositivi umani.

Per la prima volta nella storia della medicina è stato possibile osservare la replicazione in tempo reale del virus dell’AIDS all’interno di un organismo vivente. Una nuova tecnica di imaging diagnostico ha permesso di tracciare una mappa della diffusione del virus di immunodeficienza delle scimmie (SIV) – il corrispettivo animale del virus dell’HIV – in alcuni macachi.

La scoperta pubblicata su Nature Methods permette di far luce su alcune modalità ancora misteriose della diffusione del virus all’interno dei tessuti dell’organismo.

Indisturbato. Nell’uomo, la replicazione del virus dell’HIV avviene nelle cellule dei tessuti, e non nel sangue: questo fa sì che talvolta i livelli dell’infezione riscontrati nel sangue non siano totalmente rappresentativi della diffusione del virus, anche se normalmente le analisi del sangue sono un metodo perfettamente adeguato per rintracciare il virus nell’uomo.

Virus ombra. I pazienti sieropositivi sotto terapie antiretrovirali hanno talvolta livelli di HIV talmente bassi che non emergono dagli esami del sangue: il virus continua però a replicarsi in “silenzio” e le possibilità di combatterlo in modo adeguato vengono meno.

La mappa del virus. Per ovviare al problema, Francois Villinger della Emory University di Atlanta ha preso in prestito una tecnica usata nell’oncologia. Un tracciante radioattivo è stato legato a un anticorpo che si attacca selettivamente soltanto alle proteine espresse sulla superficie di cellule attaccate dal SIV.

L’anticorpo così ingegnerizzato è stato iniettato in 12 macachi infetti che sono stati sottoposti, un’ora dopo, a tomografia ad emissione di positroni (PET). L’esame – ribattezzato “immunoPET” – ha permesso di tracciare gli anticorpi e individuare così i luoghi in cui il virus era diffuso.

Diffusione a sopresa. Il SIV si stava replicando, come previsto, in intestino, linfonodi e nel tratto genitale degli animali, ma anche in alcuni tessuti inattesi, per esempio nelle cavità nasali: «L’intero tratto respiratorio alto è ricco di tessuto linfatico, non ci avremmo mai pensato» ammette Timothy Schacker dell’Università del Minnesota, che studia le modalità di infezione dell’HIV. Livelli sorprendentemente alti del virus SIV sono stati individuati anche nei polmoni, organi che finora avevano ricevuto poca attenzione da chi fa ricerca in materia.

Non ci sfuggi. Tre macachi sono stati nuovamente sottoposti a PET a 5 settimane da un trattamento antiretrovirale. Nessuno dei primati mostrava di avere ancora il virus nel sangue, ma il SIV è stato osservato nuovamente replicarsi nei tessuti. La prova, questa, che l’immunoPET potrebbe costituire un’alternativa più efficace e meno invasiva alle consuete e ripetute biopsie, spesso inefficaci nello stanare il virus.

Dalla scimmia all’uomo. La ricerca potrebbe aiutare a indirizzare meglio le cure nei pazienti sottoposti a trattamenti antiretrovirali, e a capire per quanto tempo e in quali tessuti il virus continui a replicarsi a basso ritmo, o se le modalità di propagazione del virus dipendano dal tipo di trasmissione (sessuale o intravenosa). Adattata all’uomo, l’immunoPET potrebbe chiarire quali strategie terapeutiche siano effettivamente più efficaci, e quali siano le tipologie di cellule più resistenti ai trattamenti antiretrovirali.

FONTE: focus.it

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Nel mondo sono le donne le più colpite

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Sono le giovani donne che portano il peso delle nuove infezioni da HIV. Troppe giovani donne lottano ancora per proteggersi contro la trasmissione sessuale del virus e per ottenere il trattamento di cui hanno bisogno. Sempre loro risultano essere particolarmente vulnerabili alla tubercolosi – una delle principali cause di morte nei paesi a basso reddito delle donne tra i 20 e i 59 anni.

Questa vulnerabilità deriva, tra l’altro, dalle disuguaglianze sociali, le pratiche culturali dannose per la loro salute e la povertà in cui esse sono mantenute.

In particolare, nell’Africa sub-sahariana, le giovani ragazze tra 15 e 24 anni hanno il doppio delle probabilità di essere infettate rispetto ai maschi della stessa età. Una realtà che la Piattaforma belga per la prevenzione dell’Aids vuole ricordare in occasione della Festa della Donna, domenica 8 marzo.

Secondo recenti indagini l’89% delle donne ha riferito esperienze o timori di violenza, prima, durante o dopo la diagnosi da HIV. Mentre l’80% ha sperimentato attacchi di depressione, sentimenti di vergogna e rifiuto.

FONTE: west-info.eu.it

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Tre ARV associati a un aumentato rischio di malattia renale

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Stando a un’analisi dell’ampia coorte osservazionale D:A:D, tre farmaci antiretrovirali sarebbero associati a un lento aumento, nel tempo, del tasso di malattia renale. I farmaci in questione sono tenofovir, atazanavir potenziato e lopinavir potenziato.

Gli studiosi hanno valutato il rischio di sviluppare una malattia renale cronica (eGFR inferiore a 60 ml per minuto) da parte di soggetti che presentavano normale funzionalità renale al momento dell’inclusione nella coorte. La stima della velocità di filtrazione glomerulare, o eFGR (estimated glomerular filtration rate), è una misura indiretta della quantità di sangue filtrata al minuto dai reni, ed è un metodo utilizzato per valutare la funzionalità renale. Sono stati raccolti dati su 23.560 pazienti nell’arco di otto anni.

Complessivamente, il rischio è risultato poco elevato: meno dell’1% dei partecipanti (210 pazienti) ha sviluppato una malattia renale cronica.

Come atteso, svariati altri fattori sono risultati associati alla malattia renale: età più avanzata, ipertensione, epatite C, diabete, malattia cardiovascolare, bassi livelli di CD4 in passato e pregresso uso di stupefacenti per via iniettiva.

Tuttavia è stata riscontrata anche un’associazione con taluni antiretrovirali, e più a lungo venivano assunti, più il rischio aumentava. L’incidenza è risultata del 2,2% dopo sei anni di tenofovir; del 4% dopo sei anni di atazanavir potenziato; e ancora del 4% dopo sei anni di lopinavir potenziato.

Dopo la correzione per altri fattori di rischio di malattia renale, ogni anno di assunzione di tenofovir è risultato associato a un aumento del 12% del rischio relativo; ogni anno di atazanavir potenziato a un aumento del 27%; e ogni anno di lopinavir potenziato a un aumento del 16%.

Di contro, non sono state riscontrate associazioni con aumenti del rischio né per l’abacavir né per altri inibitori della proteasi. I dati disponibili, tuttavia, non erano sufficienti per l’analisi di altri singoli farmaci.

Per quanto la malattia renale resti poco diffusa e più correlata ad altri fattori di rischio ‘tradizionali’ piuttosto che all’assunzione di antiretrovirali, è probabile che questi dati forniscano informazioni utili ai medici che prescrivono un regime antiretrovirale, specialmente a pazienti che presentano altri fattori di rischio di problemi a carico dei reni.

Resoconto completo su aidsmap.com

FONTE: aidsmap.com

L’articolo Tre ARV associati a un aumentato rischio di malattia renale è uno degli articoli di Poloinformativo HIV AIDS.

Scoperto dove virus Hiv si nasconde nelle cellule

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Notizia da Poloinformativo HIV AIDS

Ricercatori italiani hanno individuato la zona del nucleo dei linfociti in cui il virus si integra con i geni dell’individuo infettato. Ricercatori italiani hanno individuato la zona del nucleo dei linfociti in cui il virus si integra con i geni dell’individuo infettato.

E’ stata fotografata per la prima volta la struttura del nucleo dei linfociti e scoperte le “tane” dove l’Hiv si nasconde fino a diventare ‘invisibile’. La ricerca è stata realizzata all’Icgeb di Trieste da un gruppo di studiosi guidati dal professor Mauro Giacca, direttore del Centro di medicina molecolare. La scoperta è stata pubblicata sul sito di ‘Nature’ e avrà forti ricadute nello sviluppo di nuovi farmaci contro l’Aids.

L’Aids è collegato alla proprietà del virus di inserire il proprio Dna in quello delle cellule che infetta diventando così parte del loro patrimonio genetico. Gli esperti hanno cercato di capire come mai i virus colpisce solo determinati geni e ne ignora altri. Infatti la ragione per cui il virus scelga soltanto alcuni dei 20mila geni umani per integrarsi e, soprattutto, come riesca all’interno di questi geni a nascondersi ai farmaci era rimasto finora un enigma. Ora questo enigma è stato risolto dal gruppo di ricerca dell’International Centre for Genetic Engineering and Biotechnology. Gli studiosi hanno dimostrato che la presenza di due proteine(NUP153 e LEDGF/p75) è fondamentale perché il virus riesca a inserirsi nella cellula.

Si tratta di un altro passo avanti nella lotta all’Aids. Recentemente un gruppo di ricercatori statunitensi ha messo a punto una sostanza in grado di ‘inibire’ il virus nelle scimmie. Gli studiosi americani del Scripps Research Institute, in California, hanno modificato il Dna delle scimmie, in modo da creare una specie di ‘scudo’ contro l’Hiv. La sperimentazione sulle cavie da laboratorio, durata diversi mesi, ha dato risultati incoraggianti.

FONTE: repubblica.it

 

Nuova formulazione del tenofovir: pari efficacia e maggiore sicurezza

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Notizia da Poloinformativo HIV AIDS

Il tenofovir alafenamide (TAF), nuova formulazione che mantiene basse concentrazioni nel sangue ma raggiunge alti livelli nelle cellule, ha un’efficacia pari a quella del suo predecessore, il tenofovir disoproxil fumarato (TDF). E, inoltre, ha meno effetti collaterali del TDF su reni e ossa.

Il tenofovir disoproxil fumarato (Viread) è uno degli antiretrovirali più diffusi. È un componente della coformulazione Truvada e dei regimi monocompressa con Atripla, Eviplera/Complera e Stribild. Si tratta di un farmaco altamente efficace e generalmente sicuro e ben tollerato, ma in alcuni pazienti può dare problemi a reni o ossa.

Il nuovo pro-farmaco TAF, invece, rilascia più efficacemente il principio attivo – il tenofovir difosfato – nelle cellule infettate dal virus dell’HIV, raggiungendo sufficienti livelli intracellulari a dosaggi inferiori: quindi le concentrazioni plasmatiche sono più basse e di conseguenza reni, ossa e altri organi e tessuti sono meno esposti.

Mentre saranno presto disponibili in molti mercati occidentali versioni generiche meno costose del tenofovir disoproxil fumarato, il TAF è un prodotto nuovo su cui il produttore Gilead gode dell’esclusiva brevettuale.

Alla Conferenza sono stati presentati dati che mettevano a confronto la coformulazione Stribild (elvitegravir, cobicistat, emtricitabina e TDF) con una coformulazione in cui il TDF era sostituito dal TAF. Alla sperimentazione hanno preso parte circa 1700 pazienti naive in Europa, Nord America, America Latina e Asia.

Dopo 48 settimane di trattamento, i due regimi hanno mostrato entrambi alti livelli di efficacia, il che dimostra che la coformulazione con TAF non è inferiore a quella con TDF. I tassi di soppressione virale hanno superato il 90% in entrambi i bracci dello studio, a prescindere da fattori come età, sesso, etnia, HIV-1 RNA e conta dei CD4. Meno dell’1% dei partecipanti di entrambi i bracci hanno sviluppato mutazioni di resistenza primaria.

Complessivamente, non si sono riscontrate differenze neanche nei tassi di effetti collaterali ed eventi avversi gravi.

Particolare attenzione è stata prestata agli effetti collaterali a carico dei reni. In confronto al TDF, con il TAF non si sono registrate interruzioni del trattamento a causa dell’insorgenza di complicanze renali, mentre notevolmente inferiore è stata la diminuzione dell’eGFR (la velocità di filtrazione glomerulare stimata); inferiori sono risultate anche proteinuria, albuminuria e proteinuria tubulare.

Per quanto riguarda la salute ossea, il TAF si è mostrato molto meno impattante sulla densità minerale ossea a livello della colonna vertebrale (perdite di almeno il 3% riscontrate nel 26% dei partecipanti, contro il 45% del gruppo del TDF) e dell’anca (perdite di almeno il 3% riscontrate nel 17% dei partecipanti, contro il 50% del gruppo del TDF).

La coformulazione studiata è stata sottoposta alle agenzie del farmaco statunitensi ed europee per essere approvata.

Gilead sta inoltre mettendo a punto una coformulazione di TAF ed emtricitabina alternativa al Truvada, che potrebbe essere impiegata anche nella profilassi pre-esposizione (PrEP).
Resoconto completo su aidsmap.com

 

FONTE: aidsmap.com

 

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