Settimana Europea della Gioventù: l’impegno dell’ISS

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Notizia da Poloinformativo HIV AIDS

gioventù

In occasione della Settimana Europea della Gioventù, l’Istituto Superiore di Sanità ha pubblicato sul portale Uniticontrolaids i dati di accesso ai suoi servizi informativi su IST e HIV, Alcol e Fumo da parte dei giovani e una piccola lista con le FAQ e i miti da sfatare più comuni.

 

Liberare il potenziale dei giovani e promuovere l’ingresso al lavoro. Sono questi i due temi portanti della Settimana Europea della Gioventù, lanciata dalla Commissione Europea e giunta quest’anno alla sua settima edizione. A partire da ieri e fino al 10 maggio molti eventi sono stati organizzati in tutti i Paesi dell’UE. In Italia, l’Istituto Superiore di Sanità è particolarmente attento ai giovani, attraverso lo studio di alcuni aspetti critici per il benessere psico-fisico delle giovani generazione in quanto riguardano la messa in atto di comportamenti a rischio di Infezioni Sessualmente Trasmesse (IST), l’abitudine al fumo, l’abuso di alcol.

Al fine di ricevere informazioni scientificamente corrette e aggiornate per la salvaguardia della propria salute, nella specifica area dei comportamenti sessuali, è possibile contattare il Telefono Verde AIDS e Infezioni Sessualmente Trasmesse 800.861.061

Nel 2013 in Italia sono stati diagnosticati a ragazzi e ragazze sotto i 25 anni 1.191 nuovi casi di Infezioni Sessualmente Trasmesse (come ad esempio Clamidia, Gonorrea e Condilomi ano-genitali) di questi 890 sono stati testati anche per HIV. Degli 890 giovani con IST, testati per HIV, l’1,6% (pari a 14 giovani tra i 15 e i 24 anni) è risultato positivo all’HIV. (Fonte: Centro Operativo AIDS, Istituto Superiore di Sanità, Roma COA).
La prevenzione di tali patologie necessita di interventi informativi integrati che nello specifico si realizzano attraverso l’attività di counselling telefonico effettuata dal TelefonoVerde AIDS e e IST e attraverso la comunicazione via web del portale “Uniti contro l’AIDS”.

I giovani al di sotto dei 25 anni che dal 1987 ad oggi si sono rivolti al TVA e IST sono circa 200.000 e, per oltre il 50%,le domande più frequentemente rivolte agli esperti hanno riguardato:
– Informazioni sui test diagnostici – HIV e IST (27,5%)
– Informazioni sulle vie di trasmissione delle IST e prevalentemente dell’HIV (25,7%).

Si riportano alcune delle domande più frequenti pervenute da parte dei giovani

1. Come si trasmette l’infezione da HIV?
L’infezione da HIV si trasmette attraverso:

– Contatto sessuale: rapporti vaginali, anali, oro-genitali praticati e contatto diretto tra genitali in presenza di secrezioni, non protetti dal preservativo. Tale trasmissione avviene attraverso il contatto tra liquidi biologici infetti (secrezioni vaginali, liquido precoitale, sperma, sangue) e mucose anche integre, durante i rapporti sessuali. Ulcerazioni e lesioni dei genitali causate da altre patologie possono far aumentare il rischio di contagio.

– Contatto con sangue infetto: scambio di siringhe, trasfusioni di sangue o di prodotti di sangue infetti e/o trapianti di organi infetti, utilizzo di strumenti infetti. Contatto diretto tra ferite cutanee, profonde, aperte e sanguinanti, schizzi di sangue o di altri liquidi biologici sulle membrane/mucose (come gli occhi).

– Trasmissione verticale: da madre sieropositiva a figlio durante la gravidanza, il parto o l’allattamento al seno.

2. Il petting può trasmettere l’infezione da HIV?
Il petting (insieme di pratiche ed effusioni di natura sessuale, quali bacio, masturbazione, contatto dei genitali, carezze reciproche, ma che non prevedono rapporti sessuali penetrativi completi), può essere a rischio nel momento in cui bocca, pene, vagina o ano vengano a contatto diretto con liquidi genitali, quali secrezioni vaginali, secrezioni precoitali, sperma e/o con sangue.

3. Il rapporto oro-genitale è a rischio per l’HIV?
È a rischio solo per la persona che mette la propria bocca (rapporti oro-genitali praticati) a contatto con i genitali di un partner che vive con l’HIV. Tuttavia, potrebbe risultare a rischio anche per chi subisce il rapporto (persona che mette i propri genitali a contatto con la bocca dell’altro) se il partner ha ferite aperte e sanguinanti in bocca, tanto da lasciare tracce copiose ed abbondanti di sangue sui genitali del partner

4. Quando è opportuno effettuare il test HIV?
Il test deve essere eseguito dopo 3 mesi (periodo finestra) dall’ultimo comportamento a rischio. Tale periodo di tempo è necessario all’organismo per sviluppare gli anticorpi specifici contro l’HIV.
È opportuno fare sempre riferimento alla valutazione del medico che ha prescritto l’esame o alle indicazioni fornite dal professionista che la persona incontra nel Centro Diagnostico-Clinico.

“Uniti contro l’AIDS” dal 2013 integra l’attività di HIV, AIDS e IST counselling telefonico svolta dal Telefono Verde con una costante attività online attraverso non solo il Sito, ma anche l’account Twitter @UniticontroAIDS, il Servizio Skype uniticontrolaids e il canale YouTube uniticontrolaids.

Il Telefono verde alcol 800.63.2000

I servizi di alcologia e di recupero dell’alcoldipendenza hanno in carico oltre 71.000 utenti. I cosiddetti binge drinkers sono circa tre milioni e mezzo, con punte preoccupanti tra i giovani di 18-24 anni, e quote superiori alla media nazionale per le ragazze tra i 16-17 anni (dati Osservatorio Nazionale Alcol -CNESPS). Per tutti loro, per i loro famigliari, per le istituzioni e le associazioni è a disposizione il numero verde alcol 800.63.2000 dell’ISS: un servizio di counselling telefonico nazionale, anonimo e gratuito, attivo dal lunedì al venerdì dalle 10.00 alle 16.00 (inoltre, negli stessi giorni, dalle 10.00 alle 13.00, risponde un esperto sulla Sindrome feto-alcolica). Fornisce informazioni sugli effetti dell’alcol sulla salute e sulla legislazione in materia, indica le strutture pubbliche presenti su tutto il territorio nazionale, le associazioni di volontariato e di auto aiuto che si occupano dei problemi legati all’alcol, fornisce materiale di prevenzione.

Miti da sfatare (a cura dell’Osservatorio CNESPS, SIA, AICAT)

1. L’alcol favorisce la digestione e disseta.
Falso. Al contrario l’alcol rallenta la digestione poiché aumenta la secrezione gastrica con alterato svuotamento dello stomaco. Inoltre, poiché per essere metabolizzato necessita di tanta acqua che viene poi persa con le urine, favorisce la disidratazione.

2. Bere a stomaco vuoto fa male.
Vero. Il cibo fa da tampone e limita lo spazio disponibile all’alcol occupando gran parte della superficie delle pareti dello stomaco, in tal modo l’alcol viene assorbito gradualmente. Basti pensare che a digiuno si raggiunge il picco di alcolemia, cioè la quantità di alcol nel sangue, dopo appena 20 minuti, mentre a stomaco pieno l’alcolemia risulta dimezzata.

3. Un bicchiere di vino rosso aiuta la salute cardiovascolare.
Falso. Le proprietà benefiche del resveratrolo contenuto nella buccia dell’uva non sono mai state provate. Inoltre, per ottenere i vantaggi tanto decantati, bisognerebbe berne una quantità tale che l’alcol pregiudicherebbe senz’altro le proprietà della molecola.

4. A parità di bicchieri, l’alcol è più dannoso per le ragazze che per i ragazzi.
Vero. La donna ha una capacità dimezzata rispetto all’uomo di distruggere l’alcol a parità di consumo. Lo assorbe più velocemente e lo espelle più lentamente: si ubriaca perciò più in fretta con quantità inferiori rispetto all’uomo.

5. L’alcol tiene svegli e rende più disinvolti nei rapporti con gli altri.
Falso. L’alcol è, semmai, un sedativo in grado solamente di camuffare la sensazione di fatica e il dolore. Nell’immediato disinibisce ed eccita, ma nel tempo favorisce ansia, depressione e irritabilità.

Il Telefono verde fumo 800.554.088

In Italia vi sono oltre 11 milioni di fumatori. Tra questi i giovanissimi sono, spesso, forti fumatori: circa il 30% tra i 15 e i 24 anni fuma 15 sigarette al giorno e l’1,3% più di 25 sigarette al dì (dati Osservatorio Fumo, Alcol e Droga dell’ISS). Il Telefono verde fumo dell’ISS – 800.554.088 – si rivolge a tutti i fumatori (e ai loro famigliari) per indirizzarli e sostenerli nel percorso per smettere di fumare (indica le terapie e i metodi per smettere di fumare, indirizza verso i centri antifumo presenti sul territorio nazionale), ai non fumatori per indicare le strategie di tutela dal fumo passivo, agli ex fumatori per sostenerli in momenti a rischio di ricadute, agli operatori socio-sanitari per fornire materiale scientifico, informativo e divulgativo sugli effetti sulla salute causati dal fumo, alle istituzioni pubbliche e private per programmare interventi di prevenzione e promozione della salute. E’ un servizio nazionale, anonimo e gratuito, attivo dal lunedì al venerdì dalle 10.00 alle 16.00. Da circa un anno il numero verde contro il fumo è scritto anche sui pacchetti di sigarette.

Miti da sfatare (a cura dell’Osservatorio Fumo, Alcol e Droga)

1. Fumare tre sigarette al giorno non fa male.
Falso. Per il fumo non esiste un valore soglia al di sotto del quale non si corrono rischi. Il grado di tossicità dipende, oltre che dal numero di sigarette fumate, dall’età di iniziazione, da quanto tempo si fuma e dalle caratteristiche proprie della persona.

2. Il fumo, se non viene inalato, non è dannoso.
Falso. Sono oltre quattromila le sostanze chimiche liberate dal fumo di sigaretta al momento della combustione: nicotina, monossido di carbonio e catrame, tra le più conosciute. Tra le altre, troviamo il polonio alfa-radioattivo 210 (Po-210) derivante dai fertilizzanti utilizzati nelle piantagioni di tabacco e il piombo 210 (Pb-210) che fanno sì che un fumatore di 20 sigarette al dì per un anno è come se si sottoponesse a circa 25 radiografie al torace.

3.Smettere di fumare produce innumerevoli benefici già nell’immediato e a distanza di anni.
Vero. Cuore e polmoni sono, nell’immediato, meno affaticati. I denti e le dita non si ingialliscono più. A distanza di cinque anni si dimezza il rischio di sviluppare alcuni tipi di tumore (gola, esofago, cavità orale, vescica, utero) e dopo 10 anni si dimezza anche la possibilità di contrarre un tumore ai polmoni.

4.Le sigarette light, come pure quelle fatte a mano, non fanno meno male di quelle normali.
Vero. La differenza tra le “light” e le sigarette normali non esiste dal punto di vista degli effetti sulla salute. Le sigarette rollate (le sigarette “fai-da-te”) sono pericolose quanto quelle tradizionali, se non di più quando vengono utilizzate senza filtro.

5.Le sigarette elettroniche favoriscono la cessazione dell’abitudine al fumo.
Falso. La sigaretta elettronica è di recente introduzione. Non ci sono ancora sufficienti studi per dimostrare la sua efficacia come ausilio per smettere di fumare né tantomeno il grado della sua potenziale tossicità.

Fonte: Uniticontrolaids

L’articolo Settimana Europea della Gioventù: l’impegno dell’ISS è uno degli articoli di Poloinformativo HIV AIDS.

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Nuove linee guida EASL per l’epatite C con priorità al trattamento senza interferone.

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Notizia da Poloinformativo HIV AIDS

epatite cUno sguardo alle nuove Linee Guida sul trattamento dell’HCV da un articolo di Aidsmap in collaborazione con Hivandhepatitis.
Traduzione e adattamento a cura di Poloinformativohiv

L’Associazione Europea per lo Studio del Fegato (EASL) ha pubblicato le sue ultime linee guida di trattamento dell’epatite C che raccomandano l’utilizzo di antivirali ad azione diretta senza interferone (DAA) come regimi prioritari per le persone con epatite C genotipo da 1 a 6.

In concomitanza con la conferenza tenutasi a Vienna la scorsa settimana, EASL e l’Associazione Latinoamericana per lo Studio del Fegato hanno promulgato linee guida comuni per la valutazione non invasiva della gravità della malattia epatica, evidenziando che la misura della rigidità del fegato ( tramite Fibroscan) sta ormai diventando lo standard di cura al posto della più invasiva biopsia.

Le linee guida, pubblicate nell’edizione online di aprile del Journal of Hepatology e disponibili sul sito EASL, hanno lo scopo di aiutare i medici e altri operatori sanitari, così come le persone con epatite C e altre persone interessate,nel processo clinico decisionale.

Jean-Michel Pawlotsky ha presentato una panoramica delle raccomandazioni aggiornate ribadendo che tutte le persone infette da epatite C cronica hanno il diritto di essere trattati, ma non è possibile nascondere la realtà.
I nuovi farmaci sono troppo costosi e il numero di pazienti è enorme quindi c’è l’impossibilità di trattare tutti nei prossimi due anni ed è necessario stabilire delle priorità.
Chi dovrebbe essere trattato?

L’obiettivo del trattamento dell’epatite C è quello di eradicare l’infezione da HCV, al fine di prevenire la cirrosi epatica, scompenso epatico, carcinoma epatocellulare (tumore del fegato) e la morte. Tra le persone con cirrosi avanzata, il trattamento può ridurre la necessità di trapianto di fegato.

Le linee guida assegnano la priorità di trattamento in base allo stadio della fibrosi epatica, al rischio di progressione, a manifestazioni extra-epatiche e alla probabilità di trasmissione del virus.

Il trattamento è una priorità per le persone con fibrosi avanzata o cirrosi (Metavir fase F3-F4), comprese le persone con cirrosi scompensata, che possono trarre enormi benefici dal trattamento. Ma le persone con malattia epatica molto avanzata – punteggio di Child-Pugh-Turcotte sopra 12 – non possono beneficiare tanto.

Altri gruppi ad alta priorità sono le persone con co-infezione con HIV o con HBV, le persone che sono in attesa o hanno appena ricevuto un trapianto di fegato, le persone con significative manifestazioni cliniche extra-epatiche e quelli con affaticamento debilitante. Il trattamento deve essere una priorità per le persone a maggior rischio di ritrasmissione di HCV, comprese le persone che utilizzano droghe per via iniettiva, uomini gay e bisessuali con pratiche sessuali ad alto rischio e le donne che desiderano diventare madri.

Le linee guida affermano che il trattamento sia giustificato per le persone con fibrosi moderata (stadio F2), e Pawlotsky ha suggerito che il motivo giustificante il trattamento di questi pazienti può essere l’affaticamento debilitante.
Le persone con fibrosi assente o lieve (stadio F0-F1) puossono rinviare il trattamento, ma devono essere valutati periodicamente per la progressione della malattia e per discutere le nuove opzioni di trattamento che potranno diventare disponibili o accessibili. Il trattamento non è consigliato, invece, per le persone con la speranza di vita limitata a causa di condizioni non correlate alla malattia del fegato.
Regimi raccomandati per genotipo

Gli antivirali ad azione diretta senza Interferone (DAA), sono le migliori opzioni quando disponibili secondo le linee guida, a causa della loro efficacia virologica, della facilità d’uso e della buona tollerabilità.

Interferone pegilato e ribavirina, o triplice terapia con interferone / ribavirina e boceprevir (Victrelis) o Telaprevir (INCIVO o Incivek) rimangono accettabili solo se nessuna delle nuove opzioni sono disponibili. “Il messaggio è che si può utilizzare una terapia ottimale se non avete niente altro”, ha sottolineato Pawlotsky. “Prima ci si sbarazza del virus meglio è.”

La ribavirina ha ancora un ruolo da svolgere nel contribuire a prevenire le ricadute in persone difficili da trattare. Le persone con cirrosi e quelle che hanno ricevuto un trapianto di fegato dovrebbero includere se possibile la ribavirina nel loro regime interferon-free. Per coloro che non possono utilizzare ribavirina a causa di intolleranza o controindicazioni, la durata del trattamento dovrebbe essere esteso.

Quando EASL ha pubblicato le ultime linee guida 2014 al Congresso Internazionale del fegato erano disponibili: l’inibitore della polimerasi HCV Sofosbuvir (Sovaldi), il simeprevir inibitore della proteasi HCV (Olysio) e Daclatasvir inibitore NS5A (Daklizna). Da allora, sono stati approvati tre ulteriori opzioni: la coformulazione Sofosbuvir / ledipasvir (Harvoni), la coformulazione paritaprevir / ritonavir / ombitasvir (Viekirax) e l’ inibitore della polimerasi dasabuvir (Exviera); questi ultimi due sono omologati come un unico regime di ‘3D’ negli Stati Uniti (Viekira Pak).

I seguenti regimi sono inclusi nei nuovi orientamenti, insieme con i genotipi per cui sono indicati:

Senza interferone:

Sofosbuvir + ribavirina: genotipi 2 e 3
Sofosbuvir / ledipasvir +/- ribavirina: genotipi 1, 4, 5, e 6
Paritaprevir / ritonavir / ombitasvir + dasabuvir +/- ribavirina: genotipo 1
Sofosbuvir + simeprevir +/- ribavirina: genotipi 1 e 4
Sofosbuvir + Daclatasvir +/- ribavirina: tutti i genotipi
Paritaprevir / ritonavir / ombitasvir +/- ribavirina: genotipo 4

Regimi contenenti interferone:

Interferone pegilato alfa-2a + ribavirina + Sofosbuvir: tutti i genotipi
Interferone pegilato alfa-2a + ribavirina + simeprevir: genotipi 1 e 4
La durata standard della terapia senza interferone è in genere di 12 settimane. Alcune persone con genotipo 1 e senza cirrosi possono utilizzare Sofosbuvir / ledipasvir per appena 8 settimane senza ribavirina. Le persone con genotipo 1 che hanno cirrosi devono aggiungere ribavirina o estendere il trattamento a 24 settimane. Sebbene il sottotipo 1a è considerato più difficile da trattare rispetto 1b, le raccomandazioni per il trattamento sono generalmente simili.

Non ci sono molte opzioni per le persone con genotipo 2 o 3, e ci sono pochi dati sui genotipi 5 e 6.

Nel caso di cirrosi scompensata ci sono poche raccomandazioni in base al genotipo: Sofosbuvir e ribavirina (genotipo 2 e 3), e Sofosbuvir con ledipasvir (genotipi 1, 4, 5, e 6) o Daclatasvir (tutti i genotipi).

Altre considerazioni

Oltre a specifici regimi antivirali, le linee guida prevedono anche raccomandazioni in materia di monitoraggio durante il trattamento, la gestione di effetti collaterali e interazioni farmaco-farmaco, migliorando l’aderenza e le opzioni per la ri-trattamento dei non-responder.

Il Ri-trattamento in gran parte dipende da quale regime la persona ha ricevuto inizialmente e se portatore di varianti virali resistenti ai farmaci. Per le persone che iniziano il trattamento per la prima volta, può essere vantaggioso un trattamento forte e duraturo con la terapia di prima linea – anziché cercare di abbreviarlo o ridurre il numero di farmaci proprio per evitare la necessità di ri-trattamento.

Il monitoraggio della carica virale HCV prima, durante e dopo il trattamento è stato un aspetto critico nel trattamento con la terapia a base di interferone. ” Il monitoraggio HCV RNA non vi aiuterà a prendere decisioni sul trattamento [con DAAS]”, ha sottolineato Pawlotsky. “Se la carica virale scende velocemente è un bene, ma non serve per prevedere l’eradicazione.”
Per quanto riguarda la co-infezione HIV / HCV gli studi hanno dimostrato che le persone con co-infezione e le persone con mono-infezione rispondono altrettanto bene alla terapia senza interferone, e le indicazioni per il trattamento sono dunque identiche salvo tener conto delle interazioni farmacologiche con la terapia antiretrovirale, ha detto il Professor Puoti. Con circa 30 farmaci antiretrovirali disponibili, “ora è possibile trattare tutti i pazienti con HIV [per l’epatite C] senza modificare il loro regime antiretrovirale”, anche se in alcuni casi gli aggiustamenti posologici possono essere indicati. “Gli specialisti in materia di HIV si occupano della gestione delle interazioni farmaco-farmaco”, ha aggiunto.

Guardando le persone che sono in attesa o hanno ricevuto un trapianto di fegato, le raccomandazioni per il trattamento non sono definitive ed hanno diverse aree di incertezza. Il trattamento viene generalmente indicato pre-trapianto in quanto può prevenire l’infezione del fegato donatore. Ma il momento ottimale richiede una valutazione individuale.

Le linee guida contengono anche sezioni sul trattamento di altre popolazioni speciali, tra cui le persone con co-infezione da HBV, le persone con malattia renale cronica e quelli sottoposti a dialisi renale (la sicurezza di Sofosbuvir può essere ridotta in questi pazienti), le persone con malattie emorragiche, i consumatori di sostanze e le persone in terapia sostitutiva.

“Trattamento HCV deve essere presa in considerazione per [le persone che si iniettano droghe], a condizione che desiderano ricevere un trattamento e siano in grado e disposti a mantenere appuntamenti regolari,” affermano le linee guida. “Il trattamento HCV è stato eseguito con successo nei tossicodipendenti attraverso vari modelli clinici, compresi ospedali e le cliniche per la cura del fegato , cliniche per la disintossicazione, carceri, e cliniche delle comunità.” Mentre dagli studi con DAA sono solitamente escluse le persone che stanno attualmente utilizzando sostanze, molti hanno compreso partecipanti in terapia sostitutiva e negli studi di interazione tra farmaci fino ad oggi non sono state trovate interazioni clinicamente importanti con metadone o buprenorfina.
Di cosa abbiamo bisogno ora: lacune della ricerca e un migliore accesso

Nel confronto tra le linee guida di trattamento EASL e AASLD, Donald Jensen rappresentante della American Association for the Study of Liver Diseases (AASLD) si è detto impressionato da quanto siano simili. “Il loro potere si basa sul fatto che le linee guida sono molto consistenti”, ha detto. “Le differenze indicano le aree in cui c’è bisogno di ulteriori studi.”

Le questioni aperte comprendono migliori regimi per le persone con grave cirrosi scompensata , il momento ottimale per il trattamento (prima o dopo il trapianto), le opzioni migliori per le persone con HCV genotipo 3, e più dati sui genotipi 5 e 6.

Infine, i partecipanti hanno discusso quello che è diventato forse il problema più urgente per quanto riguarda il trattamento dell’epatite C: estendere l’accesso a tutti di fronte a risorse limitate.

L’accesso è il più grande problema ora visto che la maggior parte delle persone che sono con HCV non sa di esserlo.
Ciò rende necessario aumentare lo screening e nello stesso tempo il prezzo dei farmaci è eccessivo. Nella maggior parte dei paesi europei il trattamento è limitato ai pazienti in stadio avanzato.

Accorciare la durata del trattamento per abbassare il prezzo può essere un’arma a doppio taglio in quanto il ri-trattamento dopo recidiva, anche solo nel 5% dei casi, può superare i risparmi di un trattamento più breve.

Gli studi hanno dimostrato che anche il rinvio del trattamento porta a risultati negativi, ma è il costo ad influenzare le decisioni politiche.
Non ci sarà alcuna soluzione a questo fino a quando non ci sarà più concorrenza e i farmaci caleranno di prezzo, ci vorranno da 2 a 5 anni

References

Pawlotsky JM et al. (European Association for the Study of the Liver) EASL recommendations on treatment of hepatitis C 2015. Journal of Hepatology online edition, 2015.

Castera L et al. (European Association for the Study of the Liver and Asociacion Latinoamericana para el Estudio del Higado) EASL-ALEH clinical practice guidelines: non-invasive tests for evaluation of liver disease severity and prognosis. Journal of Hepatology online edition, 2015.

Link articolo in inglese: Aidsmap

Traduzione e adattamento a cura di Poloinformativohiv
In caso di utilizzo si prega di citare fonte della traduzione e link

L’articolo Nuove linee guida EASL per l’epatite C con priorità al trattamento senza interferone. è uno degli articoli di Poloinformativo HIV AIDS.

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Nuovo regime terapeutico per HCV: Sofosbuvir, GS-5816 E GS-9857

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È in sperimentazione una nuova formula terapeutica per l’epatite C cronica basata sull’integrazione fra Sovaldi (sofosbuvir 400 mg/SOF), GS-5816 (l’inibitore sperimentale del complesso di replicazione NS5A) e GS-9857 (un inibitore sperimentale della proteasi NS3/4A).

Negli studi pre-clinici, GS-9857 ha dimostrato un’attività antivirale analogamente potente contro i repliconi HCV di tutti i genotipi testati (1-6), così come un profilo di resistenza migliore rispetto ad altri inibitori della proteasi dell’HCV. In uno studio condotto su volontari sani, GS-9857 ha dimostrato di possedere un profilo farmacocinetico favorevole. Anche i dati di uno studio in monoterapia di tre giorni hanno dimostrato che GS-9857 è stato ben tollerato e ha indotto riduzioni mediane di HCV RNA pari a oltre 3 log10 IU/ml nei pazienti con HCV di genotipo 1, 2, 3 e 4, alla dose di 100 mg.

Uno studio di Fase II di Fase II della terapia a tripla combinazione, composta da una combinazione a dose fissa di SOF/GS-5816 più GS-9857, condotto tra pazienti con genotipo 1, ha dimostrato percentuali di risposta virologica sostenuta (SVR12) dopo sei settimane di trattamento pari al 93% (n = 14/15) tra i pazienti non cirrotici naïve al trattamento, 87% (n = 13/15) tra i pazienti cirrotici naïve al trattamento e 67% (n = 20/30) tra coloro che avevano fallito la terapia con due o più agenti antivirali ad azione diretta (DAA). Il regime di quattro settimane ha determinato una percentuale subottimale di SVR12 pari al 27% (n = 4/15).

“Questi dati supportano il continuo sviluppo di GS-9857 e il potenziale per una terapia a tripla combinazione, interamente orale, contenente Sovaldi, GS-5816 e GS-9857, per cercare di ridurre ulteriormente la durata del trattamento nei pazienti affetti da epatite C”, ha dichiarato Norbert Bischofberger, PhD, Executive Vice President of Research and Development e Chief Scientific Officer, Gilead Sciences. “Le percentuali di SVR12 a sei settimane e gli altri dati presentati al Congresso EASL sono incoraggianti, e dimostrano il potenziale pan-genotipico di questo regime; di recente abbiamo anche avviato studi supplementari di Fase II, al fine di valutare ulteriormente la durata appropriata del trattamento con questo regime in tutti i pazienti, a prescindere dal genotipo, inclusi quelli che hanno fallito una precedente terapia con antivirali ad azione diretta e quelli con cirrosi”.

La combinazione SOF/GS-5816 più GS-9857 è stata generalmente ben tollerata. Non sono insorti eventi avversi di grado 3 o 4, né eventi avversi gravi. Gli eventi avversi più frequenti sono stati nausea (25%), mal di testa (24%) e affaticamento (16%). In quattro pazienti (5%) si sono verificati livelli elevati – transitori e asintomatici – di lipasi (di grado 3 o 4).
GS-5816 e GS-9857 sono prodotti sperimentali, la sicurezza e l’efficacia dei quali non sono state ancora stabilite.

FONTE: italiasalute.it

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HIV-HCV e grazoprevir/elbasvir

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HIV-HCVLa popolazione dei pazienti con co-infezione HIV-HCV rappresenta da sempre un aspetto problematico nella terapia dell’HCV: quali sono i dati di maggiore interesse che emergono dalla sperimentazione delle nuove terapie, in particolare della combinazione grazoprevir/elbasvir, sui pazienti co-infetti?
I pazienti con co-infezione HIV-HCV sono considerati una popolazione ‘difficile’ per la presenza di comorbidità, che rendono più evidenti alcuni effetti collaterali legati al trattamento e per la relativa compromissione del sistema immunitario, che ha storicamente ridotto la possibilità di rispondere alle terapie convenzionali basate su interferone e ribavirina. La disponibilità di strategie terapeutiche senza interferone utilizzabili in pazienti con co-infezione HCV-HIV ha aperto nuovi orizzonti di cura e ha abbattuto un paradigma consolidato riguardo alla minore capacità di risposta al trattamento antivirale di questi pazienti. È stato dimostrato che utilizzando i farmaci antivirali ad azione diretta, i pazienti con co-infezione rispondono altrettanto bene rispetto ai pazienti con mono-infezione e che il risultato terapeutico è assicurato anche dopo il completamento di un ciclo di trattamento breve.
Ad esempio, nello studio di fase III C-EDGE, presentato durante il congresso EASL di Vienna, era compreso un braccio di arruolamento di pazienti con co-infezione HIV-HCV, trattati per 12 settimane con grazoprevir/elbasvir senza ribavirina: i risultati mostrano che il 95% dei 218 pazienti naive con co-infezione HCV-HIV da genotipo 1, 4 o 6, con o senza cirrosi, arruolati nello studio ha mostrato una risposta virologica sostenuta. Si tratta di percentuali di efficacia addirittura inimmaginabili fino a poco tempo fa, che rendono l’eradicazione di HCV una possibilità più che concreta in questa categoria di pazienti, da sempre ritenuti difficili. Il valore aggiunto della combinazione terapeutica grazoprevir/elbasvir sta nel fatto che in questo regime il carico di pillole da associare alla terapia antiretrovirale è limitato ad una sola compressa al giorno e che la ribavirina non è necessaria, e ciò costituisce un ulteriore vantaggio in quanto riduce ulteriormente il numero di compresse ma soprattutto esclude il rischio di anemizzazione che la somministrazione di ribavirina può implicare e, dunque, coniuga in maniera straordinaria tollerabilità ed efficacia. Un altro vantaggio importante per grazoprevir/elbasvir nei pazienti con co-infezione HIV-HCV è quello di avere limitate interazioni farmacologiche con i farmaci antiretrovirali anti-HIV utilizzati in tali pazienti, in particolare con il raltegravir.

Le persone con epatite C e insufficienza renale grave rappresentano una classe di pazienti definita ‘difficile’: perché la farmacocinetica di grazoprevir/elbasvir rende questa combinazione sicura e ben tollerata da questi pazienti?

I pazienti con insufficienza renale cronica e con infezione da virus dell’epatite C rappresentano una categoria molto peculiare, in quanto da una parte l’infezione da HCV può contribuire in modo più o meno esclusivo al danno renale, dall’altra un’insufficienza renale avanzata limita la possibilità di curare l’infezione da HCV. Inoltre, per i pazienti in lista d’attesa per trapianto di rene, la presenza di infezione attiva da HCV può costituire un limite all’accesso al trapianto, in quanto le modalità di selezione per questo intervento non sono uniformi e in alcuni Centri trapiantologici l’eradicazione di HCV costituisce un pre-requisito indispensabile per la collocazione in lista. Dunque, si tratta di una popolazione caratterizzata da una gestione del trattamento antivirale molto delicata nella quale la farmacocinetica e la sicurezza del regime terapeutico impiegato sono fondamentali. La combinazione grazoprevir/elbasvir possiede un profilo farmacocinetico favorevole in quanto i dati preclinici e studi di fase 1 hanno dimostrato che meno dell’1% dei due farmaci viene escreto per via renale e che la loro farmacocinetica non è modificata in maniera sostanziale in soggetti con malattia renale avanzata per la quale è richiesta la dialisi, rispetto a quanto si osserva nei soggetti con normale funzione renale. Inoltre, nemmeno la dialisi modifica il profilo farmacocinetico di grazoprevir/elbasvir in quanto l’estrazione dei due composti attraverso il procedimento dialitico è trascurabile. Questi dati rendono la combinazione grazoprevir/elbasvir utilizzabile sia in pazienti con malattia renale avanzata sia in pazienti già in trattamento dialitico e lo collocano in posizione strategica tra i regimi indirizzati all’eradicazione di HCV in questa categoria di pazienti, nei quali il trattamento antivirale risulta, al momento, privo di alternative rispetto all’interferone e alla ribavirina.

Durante il Congresso EASL in corso a Vienna sono stati presentati i dati dello studio C-SURFER in pazienti con insufficienza renale: i risultati confermano il profilo di grazoprevir/elbasvir nel trattamento di questi pazienti?
Uno dei risultati più interessanti che abbiamo osservato durante il Congresso è rappresentato dalla percentuale di eradicazione di HCV che la combinazione grazoprevir/elbasvir ha permesso di raggiungere in questa categoria di soggetti estremamente difficili, assicurando un profilo di sicurezza e tollerabilità del tutto simile a quello del paziente con normale funzione renale. Nello studio C-SURFER sono stati arruolati 235 pazienti con infezione da genotipo 1 e insufficienza renale grave, di grado 4 o 5 secondo la classificazione KDIGO. Il 76% di questi pazienti era in dialisi e va sottolineato che oltre il 90% era rappresentato da pazienti cirrotici e il 20% erano trapiantati di rene. Tutti sono stati trattati con grazoprevir/elbasvir senza ribavirina per 12 settimane riportando una percentuale di risposta antivirale completa, con eradicazione dell’infezione, nel 93,4% dei casi. Il tasso di discontinuazione della terapia è risultato molto basso, pari al 4% nei pazienti trattati e l’anemizzazione con valori di emoglobina inferiori a 8,5g/dl è stata osservata solo nel 5% dei casi. Questi risultati sono di assoluto rilievo e aprono una prospettiva di trattamento nuova ed estremamente promettente nella categoria dei pazienti con insufficienza renale cronica, anche dializzati e con malattia avanzata di fegato, oltre che nei trapiantati di rene.

Articolo di ISABELLA SERMONTI per LiberoQuotidiano

Fonte in lingua originale da Aidsmap

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Hiv, un nuovo anticorpo blocca la proliferazione del virus

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Una terapia basata su un nuovo potente anticorpo riduce la carica virale nel sangue dei sieropositivi fino quasi a 300 volte e l’effetto dura per 28 giorni. I ricercatori della Rockefeller University sperano di gettare le basi per lo sviluppo di un vaccino
Si chiama 3BNC117 ed è un anticorpo in grado di ridurre temporaneamente la quantità del virus Hiv nei soggetti sieropositivi. È solo un primo passo, visto che la molecola è stata testata su un numero ristretto di pazienti, ma i risultati della fase 1 dei test clinici lascia ben sperare di avere tra le mani una nuova terapia per prevenire, trattare o anche curare l’Hiv.

HIV: Positivo ma non infettivo

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positivo hivGenova. L’Arcigay ospita un incontro su Hiv alla presenza di Giulio Maria Corbelli, attivista dell’associazione Plus Onlus, e di Antonio di Biagio, infettivologo all’Ospedale San Martino di Genova. L’appuntamento è martedì alle 20.30 al Teatro degli Zingari.

L’incontro, dal titolo “Positivo ma non infettivo – Il sesso con una persona con Hiv può essere sesso sicuro”, prende spunto da Partner, il lavoro di ricerca sulle coppie gay sierodiscordanti, ossia le coppie in cui uno solo dei due partner è Hiv positivo.
Alle testimonianze di Corbelli e Di Biagio seguirà una discussione, con tutte le persone partecipanti, per sensibilizzare su tematiche quali: il rischio di trasmettere l’infezione al partner se la carica virale è non rilevabile, quali blocchi psicologici o fisici esistono nella sessualità tra una persona con Hiv e una sieronegativa, come l’Hiv viene percepito nella comunità Lgbt e Msm (maschi che fanno sesso con maschi).

Fonte: genova24.it

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«Io, sieropositiva, dico ai giovani proteggetevi»

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Una storia d’amore tra due città. Poi l’inizio di una convivenza, e il rapporto che si deteriora. Fin quando, prima che lei lo lasci, lui la violenta: «Sapeva che era malato, lo ha fatto apposta». Ora Veronica ha un messaggio per tutti.

«Troppi giovani sottovalutano il problema, hanno rapporti non protetti, sono poco consapevoli dei rischi che corrono. Non sanno che basta un attimo e la vita ti cambia per sempre».
Chi parla è Veronica, 49 anni, di Milano, che convive con l’Hiv da quando ne aveva 27. «Forse i ragazzi non si proteggono perché di Aids non se ne parla quasi più, a parte quando ci sono le giornate dedicate o accade qualche evento eccezionale. Sono poco educati alla prevenzione, che è l’unica cosa che ti salva. Invece, bisognerebbe parlarne, e tanto, perché il virus esiste ancora, esiste davvero e continua a passare da una persona all’altra, silenzioso».

In Italia ogni due ore qualcuno contrae il virus dell’Hiv. In totale si è calcolato che ogni anno si infettano circa 4 mila persone, soprattutto giovanissimi che hanno rapporti non protetti (l’80 per cento) e che non sanno che il virus, una volta contratto, non può più essere eliminato (il 25 per cento).
Sono dati che fanno paura. Roba che forse neanche negli anni ’80, quando di Aids si cominciava appena a parlarne e le campagne informative erano molto più diffuse di adesso, soprattutto nelle scuole. «Ricordo che con una amica decidemmo di fare il test proprio dopo aver assistito all’ennesimo dibattito.Il risultato fu negativo. Decidemmo che da quel momento non avremmo più avuto rapporti non protetti. Non potevo certo immaginare quello che mi sarebbe accaduto».

L’incontro con un ragazzo di passaggio a Milano. L’inizio di una storia d’amore. La decisione di lui di trasferirsi dalla sua città in Lombardia e l’inizio di una convivenza. «Ero innamorata, ma pretendevo lo stesso che usassimo il preservativo. Gli chiesi di fare anche lui il test, così ci saremmo sentiti entrambi più tranquilli. Ma lui continuava a rimandare. Poi una sera, eravamo ormai alla fine del nostro rapporto, mi usò violenza. E ovviamente lo fece senza preservativo. È bastata quell’unica volta». La voce di Veronica si spezza, il trauma è ancora forte, ed è doloroso raccontare la propria esperienza. Se ha deciso di farlo è per sensibilizzare chi legge, e soprattutto i più giovani.

Il 3, 4 e 5 aprile nelle piazze, nei supermercati e negli ospedali di tutta Italia saranno allestiti 2200 banchetti dove i volontari di AnlAids, l’associazione che combatte contro questa terribile malattia, sensibilizzando e promuovendo anche la ricerca, offriranno a chi passa un bonsai, la pianta ormai diventata simbolo della lotta all’Aids. «Curarli è un modo per ricordarsi che l’impegno per fermare questo virus deve essere quotidiano, come quotidiane sono le cure di cui hanno bisogno le persone che vivono con l’Hiv», dicono dall’associazione.

E Veronica aggiunge: «Quel “vivono con l’Hiv” è importante, va sottolineato. Io ci convivo da 22 anni con questo virus, e come me siamo in tanti. Oggi, grazie ai farmaci, si può scongiurare a lungo il passaggio alla fase della malattia conclamata, si può condurre una vita quasi normale. Io lavoro, vado a teatro, ho dei fidanzati».

Certo, se glielo avessero detto quando scoprì che aveva contratto il virus non ci avrebbe creduto. «Fu uno choc. Un giorno quel ragazzo, che ormai era diventato un ex, mi chiamò. Mi disse che si trovava in ospedale. Scoprii che aveva l’Aids, e che lo aveva sempre saputo. Che quando io gli chiedevo di fare il test, lui rimandava perché conosceva già il risultato. Quando mi usò violenza, sapeva che avrebbe potuto infettarmi».

«Feci anche io il test e il risultato non lasciò adito a dubbi. Dopo, ero terrorizzata. Non sapevo come comportarmi, come dirlo ai miei genitori. Deciso di non dirglielo, temevo che mi giudicassero. All’epoca, negli anni ’80, l’Aids veniva ancora associata solo ai gay e al mondo della prostituzione. Avevo paura del loro giudizio. Mi dissi: “Glielo farò sapere più avanti”. Invece non l’ho mai fatto, sono passati tanti anni e ancora la mia famiglia non sa niente».

Come, del resto, non lo sanno tanti dei suoi amici. «La gente ha ancora troppa paura. Lì per lì fanno finta di niente, ma poi ti isolano. Glielo leggi in faccia che hanno paura di toccarti, come se tu potessi contagiarli solo sfiorandoli. Allora molti come me non dicono niente. Le strade d’Italia sono piene di persone che hanno l’Hiv e che non lo fanno sapere».

Raramente Veronica lo dice ai suoi fidanzati. «L’ho fatto solo due volte. I miei partner mi hanno capita. Con il secondo la storia è durata più a lungo, ma si vedeva che aveva paura a toccarmi. Dopo aver scoperto la verità, non era più spontaneo come prima, ed è finita».

«Per anni sono stata in terapia, dovevo affrontare i miei fantasmi. All’inizio ero convinta che sarei morta presto, e non è facile vivere con questa consapevolezza, e accettarla. In seguito, realizzai che non avrei mai potuto avere figli. È stato il momento più difficile».

Anche se con le cure moderne le cose sono cambiate. «Qualche anno fa un medico mi ha detto: “Signora, lei lo sa che se vuole può fare un bambino?”. Mi ha spiegato che con le nuove terapie molte mamme sieropositive danno alla luce bambini sani. Sono scoppiata a piangere, poi però non me la sono sentita di tentare». Scoppia a piangere: «Non è facile rinunciare all’idea di avere un figlio. Non è facile vivere nel silenzio. È come essere condannata senza colpa. Per questo è importante che se ne parli. Non posso accettare l’idea di tutti quei ragazzi giovanissimi lì fuori, che fanno sesso senza protezione, inconsapevoli dei rischi ai quali vanno incontro. Devono sapere quello che rischiano, devono pensarci e proteggersi, prima che sia troppo tardi».

FONTE: vanityfair.it

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HIV/HCV : cannabis e resistenza insulinica

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resistenza insulinica

Il consumo di cannabis è associato ad un ridotto rischio di resistenza insulinica nelle persone con co-infezione HIV / HCV , secondo uno studio condotto da ricercatori francesi riportato nell’ edizione on line di Clinical Infectious Diseases.
I consumatori di cannabis – indipendentemente dalla frequenza di utilizzo – avevano il 60% in meno di probabilità di avere resistenza all’insulina (IR) rispetto ai non utilizzatori.

“Questo è il primo studio longitudinale che documenta il rapporto tra la riduzione del rischio di IR e cannabis in una popolazione particolarmente interessata dalla resistenza insulinica ” hanno commentato gli autori.
L’infezione da HCV è associata ad un aumentato rischio di insulino-resistenza e diabete di tipo 2. Una preoccupazione in più per la salute anche associata alla scarsa risposta alle terapie anti-HCV a base di interferone.

Molte persone con HCV sono co-infette con HIV, altra infezione associata a insulino-resistenza. Le cause possono includere gli effetti infiammatori dell’HIV non trattato , gli stili di vita, e disturbi del metabolismo lipidico causato da alcuni farmaci antiretrovirali.

Il consumo di cannabis è comune tra le persone con HIV e HCV. Può aumentare l’appetito (e aumento di peso), ma il suo uso è stato anche associato con obesità ridotta, e può quindi ridurre il rischio di insulino-resistenza.
Non si sa molto degli effetti del consumo di cannabis sul rischio di insulino-resistenza e diabete. I pochi studi che sono stati condotti hanno dimostrato che l’uso del farmaco è stato associato a un calo di insulina a digiuno, alla riduzione del rischio di resistenza all’insulina e a un minor rischio di diabete.

I ricercatori francesi dello studio ANRS CO13 HEPAVIH hanno monitorato 703 persone con HIV e HCV per 60 mesi per valutare se l’uso di cannabis ha ridotto il rischio di insulino-resistenza.

I partecipanti allo studio sono stati valutati al basale e ogni dodici mesi. Ad ogni visita hanno completato un questionario relativo alla frequenza del loro uso di cannabis nelle ultime quattro settimane – mai, a volte, spesso, tutti i giorni. I dati hanno tenuto conto anche di altre variabili associate con l’insulino-resistenza, definite come HOMA-IR> 2.77.
La maggior parte (n = 459) dei partecipanti erano uomini e l’età media era di 45 anni. Alla prima visita di studio, l’uso di cannabis recente è stata riportata dal 45% dei partecipanti, il 21% ha usato il farmaco di tanto in tanto, il 12% ha riportato un uso regolare e il 13% un consumo di cannabis quotidiano. Il valore di HOMA-IR medio al basale era 2,06.

Complessivamente, il 46% dei partecipanti aveva un valore HOMA-IR sopra 2.77 durante il follow-up.

Alla prima analisi degli autori hanno dimostrato che il consumo di cannabis a qualsiasi livello è stato associato ad un ridotto rischio di insulino-resistenza. Altri fattori associati ad un ridotto rischio di resistenza all’insulina includevano bere tre o più tazze di caffè al giorno, differenza di genere, e carica virale HIV rilevabile. La staduvina (d4T) era l’unico farmaco anti-HIV associato a insulino-resistenza. La cirrosi epatica ha aumentato il rischio di insulino-resistenza di circa il 50%, e l’obesità ha aumentato il rischio di quattro volte.

All’analisi multivariata, il rapporto tra l’uso di cannabis a qualsiasi livello e riduzione del rischio di insulino-resistenza (OR = 0.4; 95% CI, 0,2-06) è stato confermato dopo aver tenuto conto del genere, della carica virale HIV, dell’uso di stavudina e del consumo di caffè.
Le analisi di sensibilità hanno confermato l’associazione tra uso di cannabis e riduzione del rischio di insulino-resistenza.

I ricercatori hanno fatto notare che l’associazione tra l’uso di cannabis, l’obesità e la riduzione del rischio di insulino-resistenza è in linea con precedenti ricerche condotte negli Stati Uniti e con altri studi di laboratorio.

“Ci sono diverse terapie farmacologiche a base di cannabis che vengono utilizzate per indicazioni specifiche (ad esempio, riduzione dei sintomi della sclerosi multipla),” concludono gli autori. “I vantaggi di questi prodotti per i pazienti interessati da un aumento del rischio di insulino-resistenza e diabete devono essere valutati nella ricerca e nella pratica clinica.”

Reference

Carrieri MP et al. Cannabis use and reduced risk of insulin-resistance in HIV-HCV infected patients: a longitudinal analysis (ANRS HEPAVIH CO-13). Clin Infect Dis, online edition, 2015.

Fonte: Aidsmap

Traduzione e adattamento a cura di Poloinformativohiv
In caso di utilizzo si prega di citare la fonte

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Il punto su costi e distribuzione dei nuovi farmaci anti HCV

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I nuovi farmaci per sconfiggere il virus dell’epatite C saranno made in Latina. E’ la scelta di due multinazionali per la produzione di queste molecole a livello globale. E l’Italia è anche il Paese dove il numero di pazienti con il fegato minato dal virus Hcv è percentualmente da capogiro. L’obiettivo del servizio sanitario è quello di eliminare il virus dal nostro Paese.

Medicine sotto stretto controllo, la gestione è centrale
I farmaci ci sono, ne arriveranno anche altri, ma hanno il problema dei costi. Si è scelta così la via della selezione dei pazienti in base alla gravità per arrivare, nel tempo, a zero epatite C in Italia. Nel tempo. L’Agenzia italiana del farmaco (Aifa) ha pianificato una strategia molto moderna: un algoritmo di selezione dei pazienti. Che affiancato al recente registro nazionale dovrebbe consentire di vincere la sfida. Anche gli accordi sui costi (in alcuni casi secretati per richiesta dei produttori) hanno premiato la nostra agenzia, a tal punto da essere «invidiata» da altri Stati europei che avevano già dato il via libera al mercato di questi preziosi farmaci.

Dal 24 febbraio (Gazzetta ufficiale) il simeprevir è disponibile in Italia ed è partita la cura anti-virus dell’epatite C senza interferone e ribavirina. Non è in farmacia, ma solo in ospedale. E solo per i malati che sono monitorati (vedi algoritmo Aifa) nell’assunzione del medicinale. Una cura gratuita ma tenuta sotto stretta sorveglianza economica. Tutto ciò dopo l’annuncio della multinazionale Janssen di aver individuato nello stabilimento di Latina il produttore del farmaco per tutto il mondo e dopo il successo della lunga trattativa sul prezzo del simeprevir in Italia, finalmente è partita la prima vera possibilità di eradicare l’epatite C in un Paese.

Farmaci «rivoluzionari»
L’Aifa, l’11 marzo, ha anche raggiunto l’accordo per la rimborsabilità della combinazione dasabuvir e ritonavir per pazienti affetti da epatite cronica C (genotipo 1 e 4). E anche in questo caso la multinazionale produttrice (AbbVie) ha scelto la zona di Latina, il loro stabilimento è a Campoverde di Aprilia, sia per il mercato italiano sia estero. Gli infettati dal virus dell’epatite C (Hcv) in Italia costano attualmente al Servizio sanitario nazionale circa un miliardo di euro l’anno.

Siccome si tratta di una malattia mortale (si «cura» con trapianto oppure non si cura), si può ben dire che far guarire chi ne è affetto con una o due pillole al giorno è una scoperta rivoluzionaria. A cui si è arrivati con fatica, dopo anni e anni di ricerca e investimenti milionari. Così, quando questi farmaci tagliano il traguardo il costo trattato lievita. E non solo perché si deve recuperare l’investimento, ma anche per fare business. Peraltro, in questo caso, il prezzo elevato potrebbe essere cancellato nel giro di sei settimane di nuova cura (2 mesi al massimo): la promessa è, infatti, la guarigione al termine del periodo previsto nella quasi totalità dei casi. Il costo tiene conto di tutto ciò.

Nonostante la crisi l’Italia si impegna a eradicare l’epatite C
Il sofosbuvir, il primo approvato, tocca i circa 80 mila euro nel mondo (i 50 mila in Italia, si dice). Una malattia incurabile che diventa guaribile in poco tempo. Vera rivoluzione, ma solo per ricchi laddove non esiste un servizio sanitario nazionale. I poveri possono anche morire. L’Italia, che ha un servizio sanitario nazionale, sta cercando la via per preservare la sua filosofia di sanità universale e arrivare a curare tutti, cominciando dai più gravi per restare nel budget risicato, ma con l’obiettivo di eradicare il virus nell’arco di qualche anno. Al massimo entro il 2030, trasferendo la voce epatite C ai libri di Storia della medicina così come già accaduto in passato con la peste o con il vaiolo.

I costi non sembrano sostenibili nell’Italia odierna e i conti stentano a tornare, ma la determinazione del ministro della Salute Beatrice Lorenzin e del direttore generale dell’Agenzia italiana del farmaco (Aifa) Luca Pani hanno posto le basi di una roadmap anti epatite C per raggiungere l’obiettivo del tutti curati gratuitamente. Partendo dai malati gravi, per arrivare a quel milione (forse un milione e mezzo) di infettati ipotizzato (o stimato), anche perché a volte senza diagnosi.

Il costo che si assorbirà nel medio-lungo periodo
Per dare idea di che cosa si parla basta un piccolo gioco di calcolo: un milione di epatitici C per 50-70 mila euro (occorrono due di questi farmaci per guarire 9 malati e mezzo su dieci) porta a un totale di 50-70 miliardi di euro. Metà dell’intero fondo previsto per il Ssn nel 2015. Impossibile fare tutto subito, ma piano piano si può arrivare all’obiettivo: dai malati candidati al trapianto, da quelli che hanno più di metà fegato già non più funzionante (per la cicatrice, cirrosi, che via via uccide l’intero organo e quindi l’intero organismo) o prima che l’infezione continua non si trasformi in tumore (epatocarcinoma).

Nel medio-lungo termine, dunque, tale costo si rivelerà un risparmio per il servizio sanitario: in vite umane, in disabilità croniche, in spese dirette e indirette. Gli esperti in economia sanitaria sottolineano l’importanza di avere tra le mani nuove cure costosissime ma definitive. «I pazienti ufficiali con epatite C attualmente trattati o in osservazione dal servizio sanitario sono circa 370 mila, a cui vanno aggiunti 18-25 mila individui detenuti nelle carceri italiane», dice Massimo Colombo, università di Milano, epatologo di fama internazionale. Finalmente si conoscono i numeri, grazie a un registro nazionale divenuto d’obbligo di fronte al costo delle nuove cure. Occorre pianificare in base a dati precisi. O quasi. «Partendo dai dati, siamo andati a valutare qual è l’onere reale a carico dello Stato – aggiunge Colombo -. Resta il fatto che noi medici dovremmo spiegare ai pazienti perché c’è la cura e non possono assumerla subito, che dovranno aspettare e aggravarsi per venire guariti».

L’analisi economica
L’analisi economica spetta a Francesco Mennini, economista sanitario dell’università Tor Vergata di Roma: «Abbiamo distinto i costi diretti da quelli indiretti. I primi, quelli cioè collegati all’assistenza sanitaria, al 2013 sono oltre 400 milioni di euro. I secondi, gli indiretti, che riguardano la perdita di produttività dovuta alle giornate di assenza dal lavoro, ammontano a circa 640 milioni euro. Di conseguenza, l’onere complessivo di trattamento e monitoraggio della malattia si attesta intorno al miliardo di euro all’anno.

Considerando poi una suddivisione per stadio di malattia, emerge che in termini di costi diretti la cirrosi è al primo posto, con oltre 200 milioni di euro sostenuti dal servizio sanitario, seguita dall’infezione da Hcv cronica con 125-126 milioni di euro, e dai trapianti di fegato che pesano per circa 40-45 milioni di euro. Infine, i 26-27 milioni di euro legati al carcinoma epatico». Quindi un peso economico molto importante per il trattamento e il monitoraggio di questi pazienti. La soluzione? Far guarire questi malati. E oggi c’è il modo. Con un risparmio virtuoso che, alla lunga, donerà ossigeno all’asfittico servizio sanitario italiano. Entro quanto tempo? Prosegue Mennini: «Considerando un modello che ci ha permesso di prevedere che cosa potrebbe accadere dal 2015 fino al 2030 con l’introduzione dei nuovi farmaci, emerge che ci sarebbe una fortissima riduzione a partire dai primi 20 mesi nella prevalenza dei casi. C’è, poi, una consistente riduzione di morti da epatocarcinoma, del numero dei trapianti e, a partire dal secondo anno di inizio di trattamento, anche una riduzione dei costi diretti sanitari».

Quali sono in nuovi farmaci
I nuovi farmaci: quattro sono quelli già approvati e altri tre sono in arrivo, tutti garantiscono la guarigione nella quasi totalità dei casi. Dopo il sofosbuvir, il primo di nuova generazione arrivato in Italia, ecco ora il simeprevir. I due abbinati guariscono senza bisogno di interferone e di ribavirina. Effetti collaterali pari a zero, soprattutto rispetto a interferone e ribavirina. Un fondo da un miliardo di euro è già stato previsto ed il ministero della Salute ha inviato i carabinieri del Nas nelle Regioni per verificare lo stato di erogazione dei farmaci a fronte dei ritardi denunciati. Le associazioni dei malati annunciano che le Regioni che non garantiranno i nuovi medicinali verranno segnalate all’autorità giudiziaria.

FONTE: corriere.it

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Nps dice no alla PrEP: “Molto meglio il preservativo ”

 

preservativoHiv/Aids. Dagli Usa arriva la PrEP, terapia antiretrovirale “preventiva” per le persone sane. Nps dice no: “Molto meglio il preservativo”

Ha senso prescrivere farmaci antiretrovirali, con tutte le loro ripercussioni sullo stato di salute, solo per evitare di usare il preservativo nei rapporti sessuali? Noi pensiamo di no e non solo per un problema di sostenibilità economica. Ma soprattutto perché non vogliamo che passi il concetto che basti una “pillola” per non contrarre la malattia. Dimenticando l’importanza di una vera cultura della prevenzione nei rapporti sessuali

Per cominciare a parlare di PrEP che sta per Pre-Exposure Prophylaxis è bene fare una certa premessa, poiché si tratta di un argomento particolarmente specifico e non noto ai non addetti ai lavori.
L’Hiv/Aids ormai ha compiuto oltre 30 anni e la ricerca scientifica è quel settore che ha compiuto i maggiori progressi raggiungendo oggi ben 6 classi di farmaci antiretrovirali con circa 20 molecole a disposizione e diversamente combinabili tra loro a “basso” impatto per la qualità della vita del paziente che le assume tutti i giorni.
A dispetto dei progressi in termini di cura, in molti paesi, tra cui la nostra Italia, su temi sociali e di prevenzione non sono stati fatti altrettanti passi in avanti, tutt’altro.

La conferma di ciò a casa nostra la forniscono i dati ministeriali che registrano circa 4.000 nuove infezioni all’anno ormai da alcuni anni a questa parte. Tra i farmaci che curano l’Hiv da poco meno di una decina di anni c’è questo combinato N(t)RTI di nome Truvada (tenofovir ed emcitrabina) davvero molto efficace nel ridurre la replicazione virale . E’ necessario subito chiarire che questi farmaci non sono delle semplici pillole ma bensì dei antiretrovirali compreso quindi il Truvada. Quindi per iniziare sgomberiamo il campo da possibili equivoci e precisiamo che la parola PrEP sta a significare non una semplice pillola ma bensì una farmaco vero e proprio e della categoria dei chemioprofilattici antivirali.

I diversi studi sulla PrEP. Negli ultimi anni sono stati avviati degli studi clinici in America e in UK sull’utilizzo di questo farmaco come profilassi pre-esposizione dato l’incremento di diagnosi da Hiv soprattutto nella popolazione MSM (maschi che fanno sesso con maschi) rispetto all’incidenza generale, e ad oggi i tre studi principali Proud, Ipergay e IPrex-ole sono i più rinomati e quelli che richiamano la maggiore attenzione anche nella conferenze mondiali. Questi studi vengono condotti in modi diversi tra loro (che vedremo più avanti nel dettaglio) al fine di dimostrare che l’assunzione di Truvada nei soggetti sani riduce l’acquisizione dell’Hiv fino all’86% (dati ultimi del Croi 2015).

Lo studio Proud nello specifico era partito nel 2011 segnalando un’efficacia del 92% di protezione rispetto all’infezione da Hiv in coppie monogame così come riporta il sito ufficiale del CDC, ma poi i criteri di arruolamento sono cambiati e anche i risultati. Ci piace ricordare a questo punto che anche l’uso ottimale del condom ha risultati notevoli che si attestano al 98% di efficacia di protezione non solo da Hiv ma anche dalle restanti infezioni sessualmente trasmissibili.

Se guardiamo all’andamento dell’infezione in Italia da Hiv solo nel 2013 i casi tra MSM in totale tra italiani e stranieri sono 1255 + 163 ovvero il 45.9% delle nuove infezioni con una età mediana che si attesta intorno ai 36 anni, e quindi possiamo dire che fanno quasi il pari con la popolazione eterosessuale tutta. Un dato in linea, anzi leggermente più basso, di quello che si registra per esempio nella vicina Spagna, dove l’ultimo aggiornamento è del 2012 e le infezioni riportate tra MSM sono il 51,1% rispetto al 30,6% tra gli eterosessuali. Ma per capire da dove origina il fenomeno PrEP dobbiamo leggere i dati USA secondo i dati ufficiali del CDC (aggiornati a settembre 2014), gli individui MSM con HIV sono il 57% di circa 1 milione e 100mila persone con HIV negli USA, percentuale corrispondente a 657.800 persone. Il dato della popolazione sieropositiva include le persone non consapevoli del proprio stato sierologico.

Si capisce bene che con questi numeri l’America ha deciso di affrontare la questione in qualche modo, e la modalità si chiama anche PrEP ovvero l’uso di farmaci antiretoivirali in chiave preventiva. Le associazioni community based italiane stanno seguendo da tempo la vicenda e con pareri diversi tra loro. A sintesi di questo è recente la firma da parte di alcune di loro del documento di appello per la profilassi PrEP durante l’ultima conferenza Croi 2015 a Seattle, dove chiedono all’Ema (European Medicines Agency) di dare l’opportunità di scegliere anche la PrEP come strumento di prevenzione.

Nps ha una posizione molto diversa dalle altre associazioni di persone che vivono con Hiv in Italia poiché da sempre si è schierata per una cultura della prevenzione basata sulla responsabilizzazione delle coscienze individuali e l’assunzione di comportamenti sessuali corretti a tutto tondo che tutelino la salute del singolo e quindi di conseguenza della collettività. Rimaniamo sconcertati dall’idea che si proponga l’assunzione a persone sane di un farmaco che si usa per curare le persone già affette dal virus dell’Hiv, pur di sfuggire in qualche modo all’uso de condom e di parlare di condom!

Noi come persone con Hiv sappiamo bene cosa significa prendere la terapia Arv tutti i giorni con gli effetti che a lungo termine ne conseguono, e non possiamo condividere l’idea di medicalizzare il sesso li dove esistono altri strumenti validi di protezione e li dove non ci sono dati sulla sicurezza a lungo termine per chi assume questo farmaco, ma soprattutto, ripetiamo, in soggetti sani. La storia delle terapie antiretrovirali ci ha insegnato come ad ogni uscita di un nuovo farmaco dopo i naturali proclami di giustificato successo si sono avuti tutti i dati e gli studi clinici necessari sugli effetti collaterali.

Del Truvada, per esempio, sappiamo bene il danno renale a dieci anni dalla sua entrata sul mercato, ed infatti come vedremo nell’approfondimento allegato agli studi clinici PrEP ( farmaci antiretrovirali) ci sono i primi dati in merito. L’uso corretto del condom è parte fondante dei nostri interventi di prevenzione della scuole tra i giovani come unico strumento di tutela della salute da Hiv e da tutte le altre malattie sessualmente trasmesse: Epatiti, Hpv, Clamidya, Herpes simplex, Condilomi, Trichomonas, Sifilide.

La profilassi pre esposizione lavora infatti solo su un livello, cioè come difesa contro l’Hiv, per altro con un’efficacia solo del 78% (dato studio Iprex), mentre il condom offre protezione nel 98/99% dei casi, non solo per l’Hiv ma anche per tutte le altre infezioni sessualmente trasmissibili (Ist). Ritengo che le associazioni che propugnano l’utilizzo della PrEP dovrebbero ragionare più attentamente sui dati a disposizione, soprattutto quelle che si occupano di msm, e tornare invece a parlare di condom: la mancanza di protezione nel corso di rapporti sessuali ha causato infatti il ritorno di alcune Ist che si credevano debellate e che, a loro volta, costituiscono un terreno fertile per infettarsi anche di Hiv.

Sappiamo per esempio dal rapporto Ecdc che in Europa il 48% dei nuovi casi di sifilide si registra tra gli MSM, e anche se il dato italiano non è conosciuto perché meno del 10% dei medici lo comunica (benché sia per legge obbligato a farlo), è ipotizzabile che gli omosessuali italiani non se la passino meglio.

Nel Piano Nazionale della Prevenzione 2014 – 2018 se tra i macro obiettivi c’è la riduzione delle infezioni primarie da una parte ( per cui tra queste anche l’Hiv), dall’altra non c’è nessun accenno all’educazione sessuale propedeutica a questo scopo come unico strumento logico di prevenzione. La nostra associazione ha tra le sue mission quella di prevenire le infezioni da Hiv e anche le altre Ist attraverso interventi di peer educator e testimonial che sulla base del proprio vissuto di persone con Hiv e di attivisti spiegano ai ragazzi come tutelare il loro diritto alla salute sancito dalla nostra costituzione (art. 32) e come combattere ogni forma di discriminazione.

Quindi il nostro lavoro si fa sempre più arduo considerando una società e una scuola dove non ci sono interventi di governo strutturati che parlino ai ragazzi della loro sessualità, insieme a tematiche come questa che all’interno di un discorso totalmente assente sulla prevenzione e sull’educazione all’uso del preservativo rischiano di creare ancora maggior confusione nella mente dei giovani e dei gruppi vulnerabili.

Una precisazione fondamentale è che questo approccio alla PrEP ( farmaci antretroivirali) nasce dagli USA che hanno una non piccola differenza col nostro sistema sanitario italiano: il loro è di tipo assicurativo privato mentre il nostro, che è tra i migliori del mondo, è di tipo assistenzialistico, gestito dal nostro stato italiano. I recenti dati del report Aifa ci dicono come la spesa sanitaria farmaceutica ospedaliera sia troppo alta in Italia proprio anche grazie alla voce dei farmaci Arv e per quel che riguarda il sistema americano è dimostrato che la spesa così come è organizzata è eccessiva anche se i prezzi sono regolati da governo- assicurazioni – associazioni mediche.

Condividiamo la possibilità che alcuni gruppi selezionati possano avere il diritto di ricevere la PrEP, come ad esempio i detenuti, IDU, transgender e sex worker. Questi ultimi spesso si trovano a dover negoziare per lavoro l’uso del condom, ma noi ravvisiamo già qualche perplessità nelle coppie sierodiscordanti che desiderano avere una gravidanza per due motivi principali: sia perché esiste in Italia la possibilità di seguire un percorso ad hoc che è la PMA (uno dei successi è stato far inserire gli uomini con Hiv/Epatite all’interno di questo percorso con la L.40) sia perché a carica virale zero ci si può ritenere già protetti rispetto ad una gravidanza senza rischi di contagio.

Per cui la questione della sostenibilità del costo delle PrEP (dei farmaci chemioterapici antivirali) è di fondamentale importanza e deve far riflettere la community tutta delle persone con Hiv sulla mancanza di margini economici e sosteniamo che chi vuole questo strumento debba pagarselo di tasca propria. Infine, vi chiediamo: se uno dei vostri figli adolescenti si trovasse a dover scegliere tra un condom e dei famaci antiretrovirali (PrEP) voi genitori cosa consigliereste…?

Prendiamo quindi le distanze dall’appello firmato da alcune associazioni italiane in occasione del CROI 2015 e da chi sostiene e sosterrà l’assunzione di farmaci curativi come fossero farmaci preventivi solo perché non si riesce a parlare con franchezza di comportamenti responsabili nell’ambito di una rivoluzione della cultura della prevenzione.

Rosaria Iardino
Presidente onorario Nps Onlus

Fonte: Quotidianosanità

L’articolo Nps dice no alla PrEP: “Molto meglio il preservativo ” è uno degli articoli di Poloinformativo HIV AIDS.

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